Vues et vécus en Algérie et ailleurs. Forum où au cours des jours et du temps j'essaierai de donner quelque chose de moi en quelques mots qui, j'espère, seront modestes, justes et élégants dans la mesure du possible. Bienvenue donc à qui accède à cet espace et bienvenue à ses commentaires. Abdelmalek SMARI
Io sogno gigli bianchi
in un ramo d’olivo
un uccello che abbracci il mattino
sopra i fiori di limone.
Io sogno gigli bianchi
in una strada di canto
e una strada di luce.
Io sogno
e voglio un cuore buono
che non sia pieno di fucili
e un giorno intero di sole.
Voglio un bimbo che all’alba sorrida
non un pezzo di ricambio
per strumenti di guerra.
Son venuto per vivere il sole
che sorge, ma non quello che tramonta.
E non ho voglia di morire
e combattere donne e bambini.
Mahmoud Darwish
La mia contribuzione pubblicata nel saggio “Itinerari della Rabbia” (1) è il frutto di un piccolo scambio di mail che ho avuto con un amico giornalista, l’Algerino Sami Habbati, quando scoppiò la guerra in Ucraina. Ricordavo all’amico che la guerra è un flagello tipicamente umano. Sarà perché è figlia della politica; e questa è per sua natura umana, certo, e immorale? Un flagello che è nato con la nascita del primo gruppo umano e la sua organizzazione in comunità. Forse questo gruppo si era unito originariamente per organizzare una battuta di caccia e per difendere in seguito cacciagione e territorio di caccia e appropriarseli in un modo esclusivo e definitivo. Così l’uomo in gruppo inventò la politica e questa la guerra.
Quando il dottor Rizzi mi ha chiesto se potessi scrivere qualcosa per la raccolta dei saggi sulla rabbia che stava preparando, gli proposi quel mio scritto all’amico algerino. Scritto che nel frattempo avevo sviluppato e arricchito. In quello scritto avevo avanzato varie ipotesi di spiegazione del fenomeno guerra. Ma così come era impostato, il mio scritto non poteva essere adeguato all’argomento del libro in progress. E allora introdussi il concetto di rabbia collettiva come una nuova ipotesi per rendere conto della genesi della guerra e della sua alimentazione.
Mentre ci pensavo e cercavo di capire, sapevo che non potevo risolvere nulla. Però sapevo anche e speravo che mettendo delle parole su un male, l’uomo, se non può guarirlo, avrà comunque come risultato un po’ di sollievo. È una soluzione magica, lo so, ma è una consolazione.
Di certo rimane il fatto che finché ci sarà carne da cannone, la guerra ci sarà. Quindi la guerra esiste ed è una vera ed enorme sfida all’intelligenza del genere umano; è un male che è inerente alla nostra vita in società e di gruppo.
Bisogna parlare di questo flagello? Certo, ma non in qualsiasi modo, però. Bisogna parlarne in quanto esso è un fenomeno problematico e in più tragico. Grandi menti come Macchiavelli, Freud, Fromm o Einstein e tantissimi altri, antichi e moderni, ci hanno riflettuto sopra e ne hanno parlato. Ma le guerre hanno continuato lo stesso dopo di loro a tormentare l’umanità, i suoi fratelli gli animali, l’ambiente e altre manifestazioni della vita. Questo, perché la guerra è figlia diretta di un sentimento violento e aggressivo tipicamente umano: la rabbia, più precisamente la rabbia collettiva. E la rabbia è paradossalmente una dimensione senza la quale la vita di certe specie, tra cui la specie umana, non può esserci.
La rabbia è un’emozione istintiva intensa e globale che investe sia l’individuo che il gruppo. Come tutti gli altri istinti di sopravvivenza, essa funge da percezione del pericolo e nello stesso momento da reazione per evitarlo o neutralizzarlo. Nel senso che essa, la rabbia, è uno strumento di difesa che ci segnala l’esistenza di una situazione di pericolo da risolvere e contemporaneamente ci fornisce un tentativo di soluzione immediata dello stesso.
Pur essendo distruttiva, la rabbia è per definizione una forza naturale/adattiva, messa al servizio della sopravvivenza degli esseri viventi che l’hanno in dotazione. Essa non risparmia né uomini né babbuini e altri primati, né piccoli né grandi, né femmine né maschi, né bianchi né rossi, né individui né gruppi.
Tuttavia, questo paradosso è solo apparente e si verifica solo nel caso umano. Caso in cui, la rabbia ci si presenta sotto due forme principali: pur essendo un sentimento violento e pericoloso, la prima forma è genuina, naturale, perché adattiva e giova alla sopravvivenza, ed è questa forma che gli uomini condividono con gli animali. In questa sua forma genuina e innocente, è una capacità che hanno in comune l’uomo e gli animali e che si limita ad allarmarli dell’esistenza di un dato pericolo e a fornire loro una data via di scampo. L’altra forma, artificiale, che concerne esclusivamente l’uomo, è quella che evolve e si trasforma per diventare appunto umana, cioè non naturale, culturale. Essa viene estesa oltre il suo ruolo e la sua competenza originari e diventa di conseguenza più problematica e spesso letale.
Nella rabbia autentica gli strumenti di combattimento sono naturali e quindi innocui, cioè strettamente funzionali alla reazione per neutralizzare la minaccia. Nella rabbia culturale o artificiale, perversa, gli strumenti di difesa sono infinitamente al di sopra di quello che il caso richiede. “Ti spezzerò la schiena” promise Saddam a Mohammad Reza Pahlavi, l’ultimo scià dell’Iran. E finì per distruggere Iraq e Iran causando la morte di più di un milione di vite umane. “Ti caccerò a calci-in culo dal Kuwait” gli replicò Bush padre, qualche anno dopo. E finì anche lui con la distruzione del Kuwait e dell’Iraq causando la morte di un altro milione di vite umane e profonde ferite irrimarginabili. Senza parlare del disastro in Ucraina e quello dei nostri giorni in Palestina.
Se i nostri antenati potevano permettersi di guerreggiare, per dare sfogo alle loro frustrazioni e placcare la loro rabbia che ne derivava - poiché gli strumenti di morte e di distruzione a loro disposizione, erano pochi, rudimentali e di limitato danno -; noi, dell’epoca moderna, con la capacità che abbiamo di poter distruggere tante volte la terra e i suoi abitanti, dobbiamo cercare di evitare una tale sciocchezza – impresa che sembra impossibile – o per lo meno cercare di ridurla sia in frequenza sia in intensità.
Che fare?
Con un po’ di buon senso possiamo dire con Roberto Bezzi, co-autore di questo saggio, (2) che la rabbia collettiva ovverosia la guerra, sua figlia legittima, debba essere pensata, riconosciuta, mentalizzata per farne un’emozione-segnale, non una forza di distruzione. Per fare ciò, cerchiamo di fermarci un attimo per riflettere e trovare il modo d’intenderci per poter vivere in pace. Soltanto così impariamo davvero la cultura del perdono, perché il perdono è l’unico e reale antidoto capace di attenuare questa follia. Senza uccidere la memoria, il perdono le impedisce di trasformarsi in un rancore e una sete di vendetta. Il perdono ci invita alla calma e alla serenità che ci aiutano a essere lucidi e capire che nel guerreggiare non c’è nessuna gloria né per il vincitore del momento né per quello del domani. Il perdono ci insegna a elevarci dalla bassezza di infliggerci vicendevolmente e continuamente del male. Ci insegna che, se davvero vogliamo essere grandi, gloriosi, ci sono altre fonti e altre vie, come la comprensione e la solidarietà tra gli umani che stanno soffrendo per vari flagelli universali, malattie, povertà e angoscia esistenziale.
“Una guerra, dice lo scrittore Karim Akouche, non si vince mai. Alle generazioni future lasciamo in eredità, per interposta persona, solo intrecci di odio, labirinti di dolore, cuori trafitti, palpebre inconsolabili. (…) Si può vincere l’amore, la pace e anche, in modo banale, il denaro, ma non la guerra.” (3)
Comunque la guerra genera odio e guerra.
Vincent Cocquebert parla di egocene o l’era del culto di sé che è un periodo storico in cui, in assenza di un discorso politico che generi utopia e senso di collettività, l’individuo è incline a chiudersi in se stesso e a concepire una sola utopia individuale: l’autorealizzazione. Un fenomeno che, secondo l’autore, si è diffuso dagli anni ’80 in poi. Sembra che non esistano più società ove gli individui hanno un destino comune. La realizzazione di questo individualismo generalizzato, questo impulso di isolazionismo come lo chiama l’autore, è stata possibile grazie alla tecnologia digitale. (4)
Cosa c’entra questo con il tema della rabbia collettiva?
E invece può entrarci se questo individualismo generalizzato riesce a placcare la nascita dei conflitti armati tra due collettività, spezzandole in frammenti meno potenti. Anche perché è difficile che gli abitanti della terra si facciano individualmente la guerra: ognuno avrà i propri gatti da pelare.
Abbiamo detto che la rabbia collettiva negli uomini è pericolosa per due motivi: l’organizzarsi in gruppo agendo come se fosse un organismo uno e indivisibile, e il possedere delle armi di massacro di massa. Frantumando queste masse, si frantuma la forza che accumulano e sparisce la capacità di nuocere su scala universale, cosmica. Una volta sparite le entità organizzatesi in gruppi, non ci sarà più motivo per guerreggiare e partendo per produrre armi.
Quindi l’egocene può essere una salvezza per la specie umana: se l’individualismo è un pericolo per la vita dei gruppi, esso può rivelarsi una soluzione al problema della guerra. Visto che quest’ultima è figlia della vita in società, dell’organizzazione degli individui in comunità capaci di agire in collettività nel bene o nel male, soprattutto nel male, perché allora sarà grande e fuggirà ad ogni controllo. Non solo così sparisce il fenomeno della guerra, ma anche la corsa agli armi non avrà più senso, si ridurrà parecchio per diventare un piccolo e isolato affare personale.
Ed è a questo proposito che ho citato in frontispizio Mahmud Darwish. A un certo punto della sua carriera questo poeta palestinese - che aveva dedicato fin là la sua opera a difendere la causa palestinese - aveva smesso di scrivere poesia impegnata. Certi critici vi hanno visto una specie di orientamento del poeta verso la poesia pura, una specie dell’arte per l’arte, che non fa che bene alla poesia e onore al suo autore. Altri invece hanno visto non di buon occhio l’abbandono di questo grande attivista della causa palestinese. Hanno visto nel nuovo atteggiamento del poeta una specie di sconfitta se non addirittura di tradimento della causa palestinese. Secondo me il poeta non ha tradito la causa palestinese; è più probabile che era ritornato alla poesia genuina, non impegnata politicamente o ideologicamente, perché aveva capito che la guerra del suo popolo era troppo grande, incommensurabile, rispetto alle modeste – pur grandiose – paroline di poesia. Aveva capito che la poesia è troppo bella e pura per sporcarla con la fetida e criminale guerra. Aveva capito infine che, per combattere la guerra, bisogna smettere di comportarsi in un modo gregario, bisogna essere un individuo dell’egocene.
Tuttavia, non bisogna farsi delle illusioni; anche se questa rabbia perversa smetterà di coinvolgere l’umanità organizzata in gruppi, essa continuerà a seviziare tra i singoli individui: si pensi alle sparatorie di massa, favorite dalla libera circolazione di armi da fuoco, che spesso causano delle vere e proprie stragi in particolar modo negli USA. Ma comunque tali sparatorie, per gravi che siano, rimangono un male minore rispetto a ecatombi come quelle cui assistiamo in questi giorni in Palestina.
Abdelmalek Smari
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* Intervento del 24/11/23 alla presentazione del libro Itinerari della Rabbia – a cura di Renato Rizzi, in via Orti 19 Milano