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Vues et vécus en Algérie et ailleurs. Forum où au cours des jours et du temps j'essaierai de donner quelque chose de moi en quelques mots qui, j'espère, seront modestes, justes et élégants dans la mesure du possible. Bienvenue donc à qui accède à cet espace et bienvenue à ses commentaires. Abdelmalek SMARI

Stella ed itinerario o la storia di una passione: scrivere (2 e fine)

 

Quando sazietà egli ebbe del piacere di lei,

si volse alle sue bestie selvatiche,

ma vedendo lui, Enkidu, le gazzelle fuggirono,

le bestie selvatiche si allontanarono dal suo corpo.

Enkidu fu traversato da un fremito, rigido gli si fece il corpo,

le ginocchia senza moto, poiché le sue bestie selvatiche erano fuggite.

Il passo ora doveva far lento, non era più come prima.

Ma ora aveva saggezza, più vasto intelletto.

Tornò sui suoi passi e ai piedi della ragazza si assise.

Al volto della ragazza guarda, mentre ella gli parla:

“Sei saggio ora, Enkidu, sei diventato come un dio!

Perché con creature selvagge dovresti ancora per le steppe vagare?

Vieni, ch’io ti guidi a Uruk dagli alti bastioni,

al tempio santo, dimora di Anu e di Ishtar,

dove vive Gilgamesh, perfetto in forza,

che come toro selvaggio governa la gente”.

 

La perdita dell’innocenza primordiale – in “Il poema di Gilgamesh

 

 

 

 

Conoscevo bene le due lingue, l’arabo e il francese. Almeno credevo che fosse così e lo credo tuttora. Perché il rapporto tra lo scrittore e la lingua è il rapporto che un ricco ha con la propria ricchezza.

Lo scrittore non deve per forza conoscere ogni angolo ed ogni particolare della lingua, ma deve conoscere in fondo il linguaggio del suo romanzo, del suo spettacolo o della sua sceneggiatura.

Ciò vuol dire che l’opera non deve soffrire a causa della mancanza di parole e delle espressioni adeguate e necessarie.

All’occorrenza lo scrittore è costretto ad inventarne, e la lingua originale, di partenza, se ne troverà arricchita. Ma non deve mai concepire un’opera che vada aldilà delle sue conoscenze. È in questo senso che possedevo entrambe le due lingue, come dicevo.

Il mio problema non era questo, ma avevo l’imbarazzo della scelta. Questo era lo scandalo: da una parte, se scrivo in arabo, sarò un cittadino fedele al mio paese e rispettoso della sua anima storica e mitica.

Dall’altra parte, scrivere in francese, significa garantirmi un pubblico “importante” e seguire una lingua “moderna”, ma significa anche essere un traditore, perché è la lingua del colonizzatore, un esiliato nel proprio paese.

Ma io volevo scappare a queste due maledizioni. Non volevo essere tacciato di retrogrado né di medievale. Non volevo nemmeno essere scambiato per un figlio di Francia (di puttana?), per un bastardo senza autenticità.

Per quanto riguarda la lingua, il dilemma si sciolse quasi magicamente; non potevo aspettare più di tanto soffrendo atrocemente.

Un giorno decisi di scrivere in arabo. Col tempo, mi resi conto che a volte un tema si presentava alla mia mente in arabo, a volte in francese.

Ma per chi dovrei scrivere? Questo era il mio secondo problema. Sembra banale, ma per me era molto difficile da risolvere.

Dove si va a pescare un pubblico in un paese in cui gli intellettuali vengono repressi e torturati (una volta la televisione algerina ha fatto vedere un poliziotto – senza alcun grado - mentre stava picchiando un venerabile pensatore algerino che partecipava ad un sit-in) per l’unico reato di manifestare un’opinione diversa e sicuramente più sincera e più sensata?

Dove si va a pescare un pubblico in un paese in cui l’anteprima di uno spettacolo (si immagini un Gassman algerino) non susciti la curiosità di nessuno tranne quella di qualche amico del regista o degli attori?

Ero quindi pronto a scrivere prima ancora che mi ci fossi messo effettivamente e con determinazione.

Ma perché ho dovuto aspettare e ritardare? Cercavo un pubblico.

Si può obiettare: avresti dovuto prima scrivere, poi cercare un pubblico.

Ma questo è possibile soltanto nel caso di uno scrittore affermato. Per un principiante ci vuole prima il pubblico che faccia la domanda, che ordini.

Per gli scrittori di una volta, i re, i principi o qualche ricco commerciante erano il loro pubblico. Per altri scrittori, un essere caro (una donna per Steinbeck) o un amico.                                                   Per me era Amel. Il suo nome vuol dire speranza.

Era una mia collega. Le facevo il filo.

Era lei che mi aveva ispirato i miei primi scritti ed era lei sola, dopo di me, ad averli letti: non sapeva quale grande servizio mi aveva reso quando mi incoraggiava e m’incitava a scrivere.

Allora esplose in me un fiume sempre in crescita di poesie e dei racconti.

Le promisi che un giorno le avrei reso omaggio, se fossi riuscito a fare qualcosa sul serio: l’amante di Karim le ha preso in prestito il nome per immortalarla.

Certo, il romanzo l’ha un po’ trascurata, ma ciò non impedisce al suo nome di durare finché durerà la vita del romanzo.

“Fiamme in paradiso” nacque nella mia testa un giorno, mentre accompagnavo Taddeo Raffaele, il mio insegnante d’italiano, a casa sua.

Parlavamo di letteratura, di politica, di storia dei nostri paesi rispettivi. Sia lui, sia io, eravamo assetati di conoscerci attraverso la conoscenza delle nostre due culture.

Mi ricordo che un giorno mi propose di leggermi lui la bibbia ed io il corano. Abbiamo anche provato lui ad insegnarmi il latino ed io l’arabo.

Gli facevo delle domande sull’Italia, la sua lingua, la sua storia, i suoi costumi. Mi rispondeva e mi faceva le stesse domande sull’Algeria, il mondo arabo, l’islam.

Dopodiché, facevamo dei paragoni per capire meglio le specificità e le particolarità dell’una e dell’altra cultura.

Era trascorso un anno dopo il mio arrivo. Lui mi aveva già messo al corrente delle attività della Tenda e della nuova cultura multietnica che l’Italia stava sperimentando allora.

Confesso che, fino all’inizio del secondo anno della mia vita milanese, non ero ancora in grado di capire un granché della lingua italiana, soprattutto quando veniva parlata.

A volte avevo l’impressione che Raffaele mi nascondesse le parole dietro la sua barba!

“Avresti dovuto provare con quelli che non avevano la barba”, vi sento dire. Ma chi poteva avere l’indulgenza di parlare ad un muro?

Invece riuscivo a capire quando leggevo.

Quando Raffaele mi vide tornato l’anno successivo per continuare lo studio della lingua, mi parlò per la prima volta della narrativa nascente. L’idea mi piacque.

Però, per partecipare mi vedevo lontano. Ma questa difficoltà non m’impedì di azzardare:

-         Anch’io sto scrivendo un diario sulla mia esperienza di immigrato.

-         In quale lingua, mi disse, lo stai scrivendo?

-         In arabo, risposi un po’ risentito di averlo deluso.

-         Peccato! Noi abbiamo avuto degli scrittori stranieri che hanno scritto qualcosa, ma sono sempre delle opere scritte a quattro mani. Sarebbe bello se tu presentassi qualcosa direttamente in italiano.

-         Vedremo, gli diedi per unica risposta.

Il discorso finì qua.

Confesso anche che la sollecitazione di Raffaele ha risvegliato in me un vecchio mostro tremendo; come se la maledizione di conoscere due lingue non bastasse! Bisognava aggiungerci una terza! Ma subito mi sono tranquillizzato: ormai possedevo l’antidoto per ogni mostro.

Allora decisi di raddoppiare gli sforzi per apprendere il più velocemente possibile la nuova lingua e in modo sufficiente, affinché riuscissi ad esprimermi abbastanza in italiano.

Il diario come opera letteraria non mi soddisfaceva. Esso è utile certamente, perché è una specie di laboratorio per lo scrittore.

Però, è anche qualcosa di crudo, insulso, rozzo come l’erba delle steppe e poi è scomodo per l’autore stesso e per gli altri.

Il diario ci fa posare nudi. È spietato. È crudele. Volevo risparmiare a me e agli amici i rutti puzzolenti dovuti alla nausea di dover inghiottire mille sofferenze al giorno.

Ma quel “vedremo” che avevo detto a Raffaele, per me, era una promessa. Quindi dovevo onorarla. E poi avevo informato nel frattempo altri due insegnati miei (Carla e Franco). Era impossibile per il mio orgoglio fare retromarcia.

Mi misi a scrivere quindi.

Nel momento di creazione, le idee sono come il fumo della sigaretta nell’aria aperta. Il vento del tempo, questo lupo ladro, le dissiperà se non vengono subito imbottigliate.

Inventai una storia. La mia conoscenza dell’arabo mi permetteva di non lasciare tanto spazio tra l’idea nella mia testa e l’atto di fissarla per sempre su un foglio.

La scrissi quindi in arabo per impedire al tempo di fregarmi. La versione in arabo era una specie di appunti.

Infatti, non sentii nessun ostacolo durante la scrittura. Tutto scorreva come l’inchiostro nero sul foglio bianco.

Questa facilità m’incoraggiava a continuare a scrivere e a pensare intensamente a come architettare la trama di fondo e a quale linguaggio dovevo ricorrere.

Prima ancora di finire la storia in arabo, incominciai a tradurla.

Quando arrivò l’estate del 1994, una ventina di pagine erano quasi pronte.

La preoccupazione che il libro non potesse assomigliare a un romanzo, o che non piacesse al pubblico, non mi dava tregua.

Eravamo nell’ottobre del 1994. La scuola era appena riaperta. Praticamente, ogni sera andavo da Raffaele per dettargli e spiegargli i nuovi brani tradotti! Quante volte gli chiedevo anche il suo parere!

In realtà mi aspettavo che lui mi dicesse che fosse stupendo. Ma niente di ciò fu.

Era comunque ragionevole come atteggiamento. Non poteva pronunciarsi sul valore dell’opera, avendone letto soltanto 20 o 30 pagine.

Dinanzi alla mia insistenza da disperato, una volta Raffaele mi concesse un suo parere molto positivo. Mi disse affabile: “finché i nostri due innamorati continuano a vedersi, possiamo sperare nel meglio”.

La mia preoccupazione era incredibilmente ossessiva. Continuavo a rompergli la uattura, come diceva un mio amico di Bitonto.

Allora mi chiese di raccontargli in anticipo la storia che avevo ormai maturato nella mia testa e nella stesura in arabo.

La sua reazione era certamente rassicurante ma lui non era così ingenuo da lasciarsi impressionare da quella storia ipotetica e magari raccontata male. Occorre che l’opera sia pronta per poterla  giudicare e darne un parere obbiettivo.

Nel frattempo cercavo nella mia memoria storie e romanzi che avevo letto per paragonarli alla mia storia. In quel momento stavo leggendo un romanzo di Sainte-Beuve.

Era il primo romanzo che questo autore aveva scritto.

Il suo libro aveva la qualità contestata dai vari critici. Era considerato pieno di difetti. Eppure è stato pubblicato lo stesso.

Mentre leggevo quel libro, cercavo di capire come l’autore riusciva ad organizzare il tempo e la cronologia dei fatti e degli avvenimenti.

Ero già a conoscenza della tecnica del flash back, ma cercavo d’evitarla. La evitavo perché metteva in pericolo l’architettura dell’edificio temporale che stavo costruendo. E poi mi tentava la storia raccontata in modo lineare.

Non sapevo che, facendo così, ero costretto a distruggere l’illusione del realismo che un’opera letteraria avrebbe dovuto avere secondo me.

Infatti, la vita reale dell’essere umano, come ha mostrato la psicologia moderna da Bernheim a Freud, è intricata del suo oggi e dell’ieri, di tutta la sua storia, che guarda col sogno nell’occhio l’eterno domani, e degli archetipi della società e della specie in genere.

Tutto ciò l’istante presente lo fonde e lo da’ d’emblée come coscienza dell’essere e del mondo.

La coscienza a questo punto, se significa qualcosa, può significare l’eterna attualizzazione di questo intreccio, di questo flusso crudo, instancabile, inesauribile - se non con la morte - nelle sue esplosioni ed emanazioni di mille colori e profumi.

Sartre aveva detto un giorno delle sue opere che, se erano assurde, era perché l’esistenza in sé era assurda.

L’opera  letteraria, e la creazione intellettuale ed artistica in generale, rispecchiano e recitano questa geometria alla flash back della vita umana complessa e magicamente elegante.

Questo non lo sapevo o non riuscivo a renderlo.

Ma pensai allora che, buono o brutto, il mio libro doveva essere considerato come un’opera letteraria propria, per la passione che ci avevo messo, la vita, gli sforzi e la speranza.

“L’essenziale in un prodotto letterario consiste nello scriverlo”, dicevo a me stesso.

Scriverlo in mezzo a tutte queste insicurezze e difficoltà mi diede da pensare che tradurlo mi avrebbe richiesto meno tempo e meno energie e mi avrebbe dato più coraggio e più speranza.

La realtà invece era altra; era il contrario di tutto ciò che mi aspettavo. Lavoravo notti intere per tradurre una pagina o due. Non smettevo di pensarci. Cercavo le parole, le espressioni, le metafore e le memorizzavo per usarle. Divoravo, per questo appunto, libri, giornali e riviste. Ascoltavo la radio e la gente quando parlava.

Ricordo che in quell’epoca avevo compiuto soltanto un anno e mezzo in Italia. Non riuscivo ancora a capire la maggior parte di un discorso in italiano.

A volte non mi accorgevo nemmeno se la gente stesse parlando con me o con un altro!

La causa di questa mia deficienza era dovuta al fatto che la lingua italiana, a differenza della lingua francese, aveva le sue particolarità e non usava il pronome personale davanti ai verbi.

Se ce l’avevo fatta in così poco tempo, era grazie appunto a questa maledetta lingua amata e temuta nello stesso momento.

Questa lingua dai paradossi tremendi, combattuta tra un Camus o un Sartre civili ed umani ed un De Gobineau funesto e cafone.

Questa lingua che gli scrittori algerini in lingua francese considerano come l’unico bottino di guerra strappato e preso nel dolore dalle grinfie del tremendo drago dei franchi.

Per quanto riguarda l’apporto di Raffaele, posso dire semplicemente che era inestimabile. Perciò lascio a lui il merito di raccontarlo, se vuole.

Aggiungo soltanto questo: una volta ho chiesto ad una amica il significato di una parola. Lei me lo disse. Tre minuti dopo, le ho chiesto il significato di un’altra parola. Mi diede la risposta. Ma al terzo tentativo era esasperata.

Non ho mai visto Raffaele esasperato dalle mille domande che gli facevo.

Gli altri amici italiani, appena leggevano due o tre righe del brano tradotto, si mettevano a correggere la sintassi, l’ortografia, lo stile, la punteggiatura.

Loro trovavano sempre delle cose da correggere, Raffaele no. Lui voleva mantenere vivi lo stile, il ritmo ed il linguaggio. Tutto sommato ce l’ho fatta. Era per me un’esperienza molto importante: scrivere un romanzo.

Ma la mia condizione di vagabondo mi rendeva il compito ancora più arduo. Non avevo un luogo tranquillo dove lavorare. La biblioteca di via Baldinucci mi ha salvato. È là che avevo scritto e riscritto (tradotto) Fiamme in Paradiso.

 

Abdelmalek Smari

 

 

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