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Vues et vécus en Algérie et ailleurs. Forum où au cours des jours et du temps j'essaierai de donner quelque chose de moi en quelques mots qui, j'espère, seront modestes, justes et élégants dans la mesure du possible. Bienvenue donc à qui accède à cet espace et bienvenue à ses commentaires. Abdelmalek SMARI

Aurelio Agostino, un modello d’intellettuale impegnato per una causa divina: l’uomo*

incontro agostiniano

 

“Il concetto di secolarizzazione è una fra le caratteristiche

distintiva dei Tempi moderni. Questo concetto che il pensiero

tedesco, da Hegel a Weber, ha costituito come strumento

maggiore per interpretare la storia occidentale è marcato da una

profonda ambivalenza: da una parte rende l’idea di un declino

del religioso come settore dominante della vita sociale, dall’altra

parte rivela un movimento di trasformazione oppure di transfert

di schemi, valori o concetti religiosi o teologici nel campo mondano.”

Jean-Claude Monod

 www.decitre.fr/livres/La-querelle-de-la-secularisation.aspx/9782711615674/0x00000001ce76fee0  

 

 

 

Ignoranza? Mistificazione? Tutte e due le sciagure!

Ho ancora  in mente la domanda che il dottor Langella, docente di Letteratura alla Cattolica di Milano,  un  giorno mi aveva fatto durante un nostro incontro: “Perché – mi chiedeva – la lingua araba è posseduta dal discorso religioso?”.

Ho cercato di rispondergli subito, non ricordo cosa gli abbia risposto sul momento, ma tornando a casa, ruminando la domanda, scoprii che ci voleva molto tempo in ricerche e riflessioni per potervi rispondere compiutamente. Pensai così di rispondergli con una mail “a mente serena”.

Tuttavia, più ci provavo più mi rendevo conto che non ne avevo la capacità. Perciò quando il professor Taddeo mi ha contattato per parlarmi di questi incontri su Agostino e ho saputo che è stato lo stesso Langella a proporre il mio nome alla vostra associazione, ho pensato che il momento era propizio per tentare una risposta più approfondita alla bella e difficile domanda.

Parto quindi da quella domanda per dire, con Amartyia Sen, che esiste una tendenza a categorizzare unidimensionalmente la ramificatissima realtà umana, così ricca, così complessa ed insondabile.

Se di questo si tratta, si tratta di mistificazione o d’ignoranza che portano al disprezzo, alla riduzione, allo svilimento degli sforzi dell’uomo – in versione non occidentale - nella sua brama legittima, naturale e vitale d’essere particolare.

La sua brama di staccarsi dalle tenebre dell’anonimato per godere il sole dell’individualità, per nascere e vivere veramente.

Agostino “è situato in un modo tale che le principali avventure dell’anima occidentale operano già in esso, sono all’opera in esso … è già un moderno perché si sentiva obbligato a ripensare il tutto…” Agostino appunto “osa parlare di se stesso, delle emozioni del proprio corpo e della sua anima, dice “io” …” (Le magazine littéraire” n° 439 febbraio 2005).

Di Agostino è stato scritto tanto, sia sulla sua biografia che sulla sua intera opera. Molti autori ne hanno scritto: storici, teologi, filosofi, poeti, psicologi, letterati… ma quello che m’interessa personalmente è: “Perché gli algerini, i discendenti di Agostino lo ignorano, lo snobbano, non gli attribuiscono alcun interesse?”

“ Sarà per il fatto religioso (disputa retro-attiva tra cristianesimo e islam)?

Sarà per una mera ma “innocente” ignoranza?

O per l’esclusione e quindi “mistificazione voluta” da colonialisti che considerano razza inferiore gli uomini non bianchi - gli africani per eccellenza, inclusi quelli del nord, tra gli altri - e li ritengono per definizione incapaci di un exploit spirituale di portata universale?

Sarà per l’altra faccia della mistificazione - l’alienazione - che fa pensare agli algerini che il filosofo Agostino è “troppo degno” per essere africano?”

In “Sociologia di una rivoluzione” Franz Fanon ha analizzato quest’alienazione ed è giunto alla conclusione che essa non è che apparente.

Fanon aveva indagava un fenomeno linguistico-mentale curioso e che gli indigeni algerini hanno sviluppato nella loro condizione d’essere colonizzati e cioè: tutte le cose precarie sono arabe, quelle efficienti e perfette sono francesi. Così abbiamo strada araba per il polveroso e stretto sentiero di terra battuta; francese è la strada larga, asfaltata e pulita.

Non è masochismo o alienazione dice Fanon, ma è una semplice presa di posizione per mostrare all’arrogante occupante che anche gli indigeni hanno le loro cose e la loro dignità e possono fare a meno di lui e dei benefici del suo colonialismo.

Sì, il colonialismo è una situazione anomala e assurda e genera quindi atteggiamenti e comportamenti altrettanto anomali e assurdi.

A proposito di questa specie di fissazione sulla pretesa superiorità dell’uomo bianco, gli storici ed antropologi di obbedienza razzista non hanno forse negato l’origine nera della civiltà dei paesi del Nilo? come afferma, molto documentatamente, Cheikh Anta Diop.

Io pendo per quest’ultima ipotesi, senza escludere le altre. Comunque, civili o barbari, “gli altri” hanno pure una dignità. E hanno fatto addirittura di questa esclusione un tratto d’identità, di dignità e d’orgoglio.

Come agisce questa mistificazione e quali sono i meccanismi che la mantengono e le permettono di riuscire nei suoi scopi distruttivi?

“ In primis” il linguaggio ovviamente: spesso si continua a nominare i luoghi con dei termini generici tratti dal passato e non contestualizzati all’attualità geografica - Africa, Madaura, Ippona, Tagaste, Milevi, – così come gli africani Fausto, Frontone e Apuleio che, nella versione francese, sono resi estranei al luogo d’origine, anche per la presenza, ad esempio del suono P.

Fronton poi suona proprio francese e Sant’Agostino infine è una parola illeggibile in arabo… ma ha tutto per essere francesissimo e,  più che essere cattolico, è uno straniero!

Invece di fare riferimento preciso a quei luoghi come sono conosciuti col nome attuale, spesso ci si perde nelle generalità del passato e in questa nebbia patinata di arcaico in cui non si possono riconoscere né i luoghi né le persone stesse.

L’uso quindi dei nomi latini, abbandonati da secoli e che suonano ora quasi esoterici, contribuisce a questo disorientamento.

Il latino era estraneo, agli inizi, ad Agostino stesso. “C’è stato un tempo - confessa - … neppure di latino sapevo una parola …”

Da qui a presentare e far percepire questi luoghi e queste personalità come delle entità completamente estranee agli abitanti attuali dell’Algeria - eredi legittimi di Agostino, veramente? - come se non li  riguardassero, ci vuole meno di un pelo.

 

Gli algerini e Agostino

Il grande Convegno scientifico internazionale ad Algeri e Annaba del 2001, dal titolo “Africanità e universalità di Sant’Agostino” ha confermato che la figura di Sant’Agostino è molto popolare nella terra che l’ha visto nascere e morire: “È il più illustre fra gli algerini” si sottolinea infatti negli atti del convegno…

Nonostante ciò, rimane da dire che Agostino è poco conosciuto di nome, figuriamoci per ciò che ha scritto.

Nel suo libro “Bianco d’Algeria” (il Saggiatore, Milano 1998) Assia Djebar - parlando delle vittime, negli anni ’90, del periodo nero del terrorismo in Algeria - ha inserito, molto velocemente però,  Sant’Agostino - che si trova ancora a Pavia in esilio, pur essendo morto 16 secoli fa’ - nella saga dei destini particolari, e a volte tragici, di molti scrittori algerini.

Agostino è stato un argomento tabù per lungo tempo e lo è tuttora per gli algerini: sono pochi quelli che lo conoscono e ancora meno quelli che lo vogliono conoscere e riconoscere come figlio della loro terra e come grande uomo di cultura filosofico-teologica universale.

Lo afferma anche e lo spiega en passant  Mgr Henri Teissier - arcivescovo di Algeri - a Giovanni Cubeddu - che gli chiede: “Che cosa significa per l’Algeria musulmana celebrare un santo come Agostino?”

Il sacerdote risponde: “… finora nel paese non s’era mai parlato dell’Algeria dei primi secoli, cristiana, ma solo di quella posteriore al secolo VII, cioè datando dall’arrivo dell’islam e tenendo in conto solo il patrimonio storico-religioso arabo-musulmano. Perciò questo non è un convegno qualunque: dimostra che l’Algeria oggi accetta integralmente il suo patrimonio culturale, si riappropria dell’epoca cristiana come parte della sua identità nazionale, e riconosce la personalità eccezionale di Sant’Agostino. E questo non perché la storia di questo Paese manchi di grandi figure musulmane, come il grande filosofo del secolo XIV Ibn Khaldun o l’emiro Abd al-Kader che fu protagonista della resistenza alla penetrazione francese…”

“Come avete inteso … l’africanità?”

Henri Teissier: “Qui sorge un problema, per noi e per gli algerini. C’è chi afferma che Sant’Agostino era un “romano”, perché scriveva in latino, aveva un nome latino, Augustinus, eccetera, e per questo non sarebbe un vero africano… Inoltre… nella società algerina è tuttora vivo il dibattito sulla sua posizione “politica”: secondo alcuni egli avrebbe parteggiato per Roma contro coloro che in quel tempo rappresentavano l’identità nazionale algerina in opposizione all’Impero, cioè i donatisti.”

Quanto a me, cercare di spiegare questo atteggiamento, più stupido che ingrato, è lo scopo del mio intervento.

Vorrei tanto scavare, indagare in questo atteggiamento ostile che gli algerini hanno avuto nei riguardi di uno fra i grandi personaggi fondatori della cultura detta occidentale e ciò che dico in questa sede sarà una specie di resoconto della presa di coscienza mia personale della necessità di riconciliarmi con una grande parte della storia algerina, a noi negata a causa della nostra stupidità, complice dell’opera mistificatoria altrui.

Con questo “altrui” intendo la cultura tendenziosa dei colonialisti che hanno un interesse vitale a creare barriere - tanto false quanto insuperabili - tra popoli non poi così diversi, perché vicini e condividenti storia, cultura, filosofia, territori, tradizioni, miti e destini.

Riabilitare questa fetta importante della storia algerina fa parte ormai degli interessi di una classe d’intellettuali dell’Algeria odierna (Assia Djebar, il presidente della Repubblica …., persino il Consiglio supremo dell’Islam, tra le altre istituzioni).

Vorrei contribuire anch’io, nel mio piccolo, a questo nobile progetto. Forse solo così si riesce a creare un dialogo tra popoli diversi che sembrano lontani, incompatibili e nemici, ma che in realtà sono molto vicini e fratelli. Forse solo così si riesce a basare le fondamenta di un’intesa duratura, perché autentica.

Se Sant’ Agostino l’algerino non è proprietà privata dell’Algeria, egli non può essere però neppure proprietà privata della Chiesa. I suoi insegnamenti appartengono a tutta l’umanità, finché continuano a servirle ancora.

Parlando di Agostino che viene ignorato dagli algerini ad una mia collega, lei mi disse che era evidentemente perché era cattolico.

La sua mi ricorda la risposta di un insegnante di francese durante un corso di aggiornamento: alla domanda del formatore “Chi era Ben Khaldoun?” l’ignaro insegnante rispose che era un dottore del Corano! come si dice “un dottore in fisica o in psicologia”.

Ecco cosa si vorrebbe fare di Agostino, e del resto lo si fa per tutti i popoli che si reclamano tamburi battenti dell’islam: se non dei dottori, dei sacerdoti!

Questo aneddoto mi riporta alla mente anche la risposta che mi diede un signore a cui chiesi informazioni su un castello che la negligenza e l’ignoranza nostra, oltre all’azione corrosiva degli elementi, rovinavano e continuano tuttora a rovinare: “È un edificio romano” disse.

In realtà si tratta di un monumento architettonico arabo assai bello e prezioso. E, soprattutto, quel castello aveva accolto come ospite, Ibn Khaldoun, l’illustre precursore della Sociologia “ante litteram”.

Questi monumenti storici, tra l’altro, se escludiamo le rovine romane, sono molto rari in Algeria perché la Francia coloniale, o l’Algeria francese, stava più attenta all’eredità romana che a quella di origine araba o turca. Gli strateghi della colonizzazione quindi si precipitavano a distruggere ciò che gli elementi non avevano ancora rovinato. “Bisogna far dimenticare agli indigeni chi siano” dicevano questi funesti strateghi.

Un mio insegnante di francese della scuola elementare mi ha confessato recentemente in una mail che da bambino - durante il periodo dell’occupazione francese - moriva dalla voglia di partecipare alla processione che aveva luogo ogni anno ad Annaba per ricordare S. Agostino.

Con quale nostalgia mi descriveva la gravità e la forza di questa brama mai appagata, purtroppo, perché era piccolo e sua madre glielo impediva!

“… Pourtant – scriveva -, je mourais d’envie d’y participer, marqué par l’ambiance solennelle qui se dégageait au passage des croyants qui chantaient durant tout le parcours des chants à la gloire de Dieu et de Saint Augustin.” Si sentiva  fortemente quindi la presenza di Agostino, ma nei cuori dei soli europei cristiani che erano in Algeria.

Per gli algerini Agostino non apparteneva loro per la semplice ragione che era accaparrato dal campo avverso: l’occupante, usurpatore della loro terra e della loro dignità.

Questo succedeva nel tempo in cui “bisogna (secondo l’ordine del maresciallo Bugeaud) impedire agli arabi (indigeni algerini) di seminare, di raccogliere, di pascolare …” e ai tempi de “Il Code de l’indigénat (che fu) destinato a spossare ed intimidire quotidianamente gli Algerini.” (Abdallah Laroui in “Histoire du Maghreb” II, Petite collection Maspero, Paris 1975).

Con la seguente affermazione tanto categorica quanto infondata, perché ignora le riflessioni spirituali elaborate da un Ghazali, ad esempio, tocchiamo il fondo dell’esclusione, anche se in maniera sottile.

“Noi – afferma infatti Mgr Teissier - abbiamo un concetto e un’esperienza dell’agire di Dio tramite la grazia che non esiste nel pensiero musulmano. Anche l’islam sa che l’uomo per essere fedele a Dio ha bisogno di essere guidato da Dio, però non vi è una riflessione elaborata su grazia e libertà, che è un tema specificamente cristiano.

Il quadro della diffidenza totale nei confronti non solo dell’occupante di una volta, ma anche dell’usurpatore di oggi e di ciò che lo interessa, si completa.

Questo atteggiamento “ad escludendum” può essere una - ma non l’unica - spiegazione all’avversione che gli algerini – nella loro accezione più ampia, come popolazione comune insomma - mostrano oggi  nei confronti del loro illustre avo; anche se questo non impedisce il crescente, anche se tardo, interesse da parte degli algerini per il loro patrimonio culturale dell’epoca cristiana.

È segno di un complesso d’alienazione o di una vera presa di coscienza? Agostino può essere paragonato alle piramidi dell’Egitto e la sua cultura alle ricchezze storiche di queste piramidi anch’esse rimaste per lungo tempo sconosciute ai loro legittimi eredi.

Oppure occorrono gli occhi altrui per potersi rendere conto del proprio valore e sentirsene fieri?

I pionieri della riconquista di questa parte della storia dell’Algeria sembrano dirci: “Bisogna sbarazzarsi da ogni pretesto perverso e da ogni complesso di sentirci estranei ai nostri scrittori e filosofi antichi, queste nostre uniche piramidi.

La storia costituisce le radici dell’albero che siamo attualmente. Andarvi in qualche modo ad attingerne acqua e alimenti è una necessità vitale per le foglie, i fiori e i frutti che ne vivono anche se sono lontani dalle origini, nel cielo dell’istante.

I colonizzatori hanno trovato i mezzi per tagliare questo movimento di andata e ritorno, con i loro sputi di disprezzo:

“Non avete uno Stato!

Non avete il senso della cittadinanza!

Non esistete che grazie a noi e per grazia nostra!

Siete un mosaico di tribù e di clan ostili gli uni agli altri!

Non avete il senso della storia…”

e noi abbiamo creduto nelle loro mistificazioni!

Quest’alienazione non risparmia nessun algerino. Non si pensi che i governanti algerini siano scesi dall’Olimpo per governare i loro concittadini: essi sono spuntati dalla stessa terra che ha dato luogo alla loro plebe. Subiscono anch’essi le stesse inibizioni, le stesse correnti e gli stessi errori e luoghi comuni.

Forse il problema dell’allontanamento dalla propria storia antica, che produce un’identità schizoide e ambigua, ora respinta ora osannata, viene da questo imbarazzo di fronte a questa eredità un po’ anomala, incompresa e sentita come doppiamente estranea: romana e anche cattolico-cristiana.

 

Chi è Agostino?

“Questo uomo della fine dell’ Età antica, questo cristiano ossessionato dai problemi essenziali della grazia, della struttura dell’essere di Dio, del Bene, è infine uno scrittore geniale.”( Enciclopedia Universalis)

Si tratta di Aurelio Agostino (354-430), figlio di Patrizio e di Monica (fatta santa), nato a Souk Ahras in Algeria e morto come vescovo a Annaba, sempre in Algeria.

Fu un uomo di Chiesa e di religione e retore, ed è rimasto filosofo soprattutto. Stando al quotidiano algerino El Moudjahid, le sue opere sono più di duecento, senza contare i sermoni e le lettere, che sono state tradotti in tutte le lingue.

Ogni anno più di cinquecento pubblicazioni sono registrate su di lui e quindici riviste sono interamente consacrate ad Agostino.

Marco Vanini (ne “Invito al pensiero di Sant’Agostino” ed. Mursia, Milano 1989) dice: “Agostino ad Ippona deve perciò svolgere il ruolo di maestro e pastore, amministrare i sacramenti e tenere il culto divino, predicare; fornire altresì consulenza giuridica e dirimere questioni legali; difendere la Chiesa e la retta fede contro le molte eresie presenti; fare opera apologetica di fronte all’accusa del paganesimo; chiarire punti essenziali della dottrina, portando contributi fondamentali alla penetrazione del dogma; tenere rapporti con l’autorità politica e militare romana, … fu in contatto epistolare con gli ecclesiastici dalle Gallie all’Oriente; consigliò i papi… sotto il profilo intellettuale, … l’attività di Agostino è scandita da tre grandi controversie: con i manichei, i donatisti e con Pelagio e i pelagiani.”

Paratore dice di lui: “La letteratura latina…, mediante S. Agostino, celebrò, proprio nell’ora del crollo dell’Impero d’Occidente, il suo tramonto, ma con un barbaglio così imponente, che il tramonto stesso si tramutò in gloriosa aurora, l’aurora dell’umanità nuova …”(“I classici latini” v. 2 – Editore Bulgarini, Firenze 1990, a cura di E. Masetti e M. Pelligrinetti, pag.620.).

 “Così, in un’opera ineguagliabile, Agostino è riuscito in una potente sintesi (a mantenere insieme) il retaggio di una cultura antica a cui non ha smesso di reclamarsi e cui ha profondamente amato, e gli sviluppi di tutto il pensiero cristiano realizzato nel corso degli ultimi cent’anni.”( Enciclopedia Universalis).

 

Agostino filosofo e fondatore dell’uomo occidentale

“Il merito di S. Agostino è stato quello di aver attualizzato al suo tempo la filosofia di Platone... L’altro merito di S. Agostino è la scoperta della “verità interiore” … è quello che per primo riporta il grande pensiero greco all’interno della riflessione teologica” mi scrisse Raffaele Taddeo.

Agostino parte certamente dalla brama di svelare i misteri dell’esistenza che la filosofia non riusciva a spiegargli per approdare infine alla religione.

Ma lui non fu poi così “religioso”: semmai fu lui ad imprimere una certa forma o un certo aspetto alla religione. Per il resto è rimasto filosofo come all’inizio, se filosofia vuol dire cercare ed amare la conoscenza.

Per un’impresa del genere bisogna sempre partire da qualche punto. Si parte quindi da qualsiasi terreno, dalla medicina, dalla matematica, dall’arte, dall’etica, dalla filosofia stessa o dalla religione, magari anche si prendono in prestito i concetti ed i metodi di questa o quest’altra disciplina per riflettere, cercare e quindi filosofare.

Agostino in tutta la sua vita si era impegnato nella ricerca di una via che portasse alla verità sulla vita dell’uomo. È partito dalla filosofia per approdare alla verità, dopo percorsi diversi.

L’ultimo percorso fu la scoperta di Dio e l’elaborazione definitiva e salda del suo atteggiamento e della sua fede.

La sua è una conoscenza sorgitiva, elaborata soprattutto a partire dai dettagli significativi e dai particolari forti della sua esperienza esistenziale inquieta e irrequieta.

Tutti gli incontri in questo senso, a cominciare con quello della madre, la lettura dell’Ortensio, Ambrogio, Sempliciano, Ponticiano, e altri momenti di diatribe e di polemiche, hanno agito come un catalizzatore su di lui provocando nuove sintesi nella sua vita.

È il percorso di filosofo che continuava sotto le vesti di riflessioni mistico-religiose.

Così, diventato credente, Agostino è rimasto filosofo. E così anche, “avendo assicurato – Magazine Littéraire - il passaggio dall’antichità al cristianesimo, egli appare come il fondatore dell’uomo occidentale.”

Davanti all’onda devastante della giovane e vigorosa religione cristiana di stampo romano, egli ha messo in salvo la cultura classica cara al suo cuore. 

La ricerca del senso della vita è una cosa troppo seria per lasciarla tra le grinfie degli arroganti e delle loro elucubrazioni senza metodologia, né critica sistematica. In Agostino c’è questo accanimento di ricerca metodologica.

E la filosofia pagana, ormai stanca, ma attraversata dal vigoroso e promettente pensiero religioso cristiano, gli mette a disposizione tutte le domande e la metodologia e tutto il tesoro dei concetti per lustrarli alla luce dei nuovi sviluppi del pensiero umano e rivitalizzare e spingere avanti quindi la mente rinvigorita.

Così è e sarà il destino del sapere, le cui correnti attraverso la storia fanno pensare a dei cerchi circoscritti ed intersecati.

È l’avventura della vita umana che il nostro autore narra o osserva o cerca di percorrere con un logos forgiato ad hoc a partire dall’educazione subita durante l’infanzia, dai sentimenti, dalle esperienze della vita, dalla filosofia e saggezza dei classici, dai tentativi dei contemporanei, dalle scritture sacre, dalle discussioni, polemiche e meditazioni…

Fondare la speranza sull’uomo, per definizione limitato, senza l’invocazione della grazia divina è fondare una speranza già tronca ed effimera in partenza.

Anche la morte di un amico diventa un’esperienza significativa che Agostino ha meditato come metafora della vanità delle creature senza la provvidenza del creatore.

Davvero, si tratta di un filosofo.

Aggiungo però che la religione di Agostino era la gratitudine, effetto della grazia divina.

È il suo destino di grande uomo quello di partire, lontano dalla sua patria non solo fisica, ma anche epistemologica e spirituale, per crescere e rinnovarsi. E ritornare nel terroir per generare e rendere il bene e la grazia ricevute, moltiplicandoli come una spiga.

Per questo ha una connotazione molto negativa la parola kafir, spesso mal tradotta, che etimologicamente in arabo non significa infedele bensì ingrato.

Questo concetto di gratitudine mi viene richiamato – o me l’ha insegnato - Agostino, che era gratissimo alle sue patrie.

Me l’ha insegnato - in altro modo e in altra sede prima di lui – Ghazali, grande filosofo arabo del X secolo, che suscitò poi le aspre critiche di  Averroè.

 

Tra Agostino e Ghazali

La prima volta che il nome di Agostino ha attirato la mia attenzione, devo dire un po’distratta, fu all’università di Costantina.

Ce lo presentarono velocemente come il precursore della scienza sociologica. Ma la parola “santo” mi lasciò perplesso perché mi diceva che quel uomo non era che un uomo di religione, mentre i filosofi arabi ci si presentavano senza il titolo di santo, tranne uno, appunto Abou Hamed El Ghazali.

Lo chiamavano Hudjat-ul-Islam, la Prova forte dell’Islam.

Più tardi, un titolo come questo mi è parso un po’ ridicolo, un po’ buffo come il titolo “si”(diminutivo di “sid o cid”, cioè signore) che nel Maghreb spesso precede il nome di una persona, che si vuole considerare importante.

E non è un caso se - ora che ho indagato un po’ su Agostino - riconosco notevoli similitudini tra l’uno e l’altro e posso anche dire che Ghazali è l’Agostino dell’Islam.

Vi è tutto in lui che ho riconosciuto in Agostino: il culto della conoscenza, l’avversione del mondo e l’umiliazione del proprio orgoglio, l’amore profondo di dio, la colpevole azione dell’uomo e delle sue passioni, l’indagine di sé fino alla “pazzia”, lo scetticismo, l’odio per le chiacchiere mute

Entrambi erano filosofi appassionati del loro oggetto di ricerca, di studio e di meditazione, cioè la religione.

Si racconta di Ghazali che un giorno, durante un viaggio attraverso il deserto, la sua carovana venne assalita e saccheggiata e così anche i suoi libri. Gli faceva male non avere più i libri. Allora decise di non contare più sui libri e affermò che “la sapienza è nella testa, non nel quaderno” (in arabo questa frase è in rima).

Più tardi, parlando della conoscenza come fonte interna, citava Ali, genero del profeta e padre dei mistici mussulmani: Ali designava il cuore come crogiolo di sapienza infinita ed inesprimibile, condizione fondamentale per ogni apprendimento: perciò bisogna ascoltare il proprio cuore e essere “liberi” per imparare.

Anche Agostino dice “quando è il cuore a incalzarci perché dia alla luce quello che concepisce.” Come dirà poi Goethe: “non s’impara che ciò che si ama”, tema centrale delle tesi di Agostino.

“E ritrovò (l’anima) la luce che l’aveva inondata… perché se non ne aveva alcuna idea non poteva esser così certa di preferirlo al mutevole.” spiega Agostino nelle Confessioni.

Anche Ghazali parla di un albero benedetto “non orientale né occidentale”, con cui la mente tende a rendere conto di questo maestro interiore, il cuore (questa particella divina che dio ci ha soffiato dentro) e grazie alla quale l’uomo staccandosi dalla dispersione dell’essere tra le cose inconsistenti, riesce a giungere alla salvezza, alla contemplazione dello splendore di dio.

Oltre a condividere l’idea che la conoscenza è d’origine sorgitiva o interna, i due filosofi condividono anche altre caratteristiche esistenziali e idee.

Agostino si fa umile non solo di fronte a dio ma anche di fronte alle sue creature.  

Anche Ghazali si è lasciato andare fino alla povertà e alla viltà mondane per avere la libertà celeste, tema comune d’altronde ad una tradizione filosofica classica che ha come perno di rotazione “la continenza”.

Mentre Agostino… “L’universitario appagato (Magazine Littéraire), l’arrivista arrivato, programmato per un matrimonio nel mondo migliore, rinuncerà a tutto ciò, ritornandosene verso la sua Africa natia ove lo stava aspettando un tutto altro destino.”

È un modo per liberare il sentiero verso l’acquisizione della verità e preparare il cuore a ricevere la grazia divina, contemplare la luce del volto di dio - direbbe Ghazali.

Si arriva a questa felicità, dice Agostino, allontanando il mondo e le sue vanità che “tenevano lontano da te”.

Ghazali vede nelle lodi e nei biasimi due facce di una stessa medaglia: il disprezzo.

E Agostino, chiedendosi come ci si può sbarazzare della lode altrui, afferma “e sono un po’ migliore soltanto quando piango in segreto nel disgusto di me stesso, e cerco la tua misericordia …”

Un tratto comune tra Ghazali e Agostino è il ricorso allo strumento passe-partout allegorico, alla metafora.

“La lettera uccide, lo spirito vivifica” riferisce  Agostino da Ambrogio.

Anche Ghazali se la prende con quelli che interpretano il Corano alla lettera, azzardando addirittura un’interpretazione del giorno del giudizio universale quasi in chiave eretica, supportato dall’allegoria. In questo giorno la morte, lontana e quindi nebbiosa ed incerta, dell’universo intero - che il verso coranico significa e intende – diventa anche la morte concreta, la morte fisica ed individuale degli esseri viventi. Tanto che i suoi avversari lo considerarono un eretico.

Per Agostino la filosofia non è più quella platonica o contemplativa, ma è sapienza e conoscenza salvifica, legando egli la ricerca metafisica all’inquietudine esistenziale e al desiderio di felicità.

Ghazali come Agostino, due anime vacillanti sedotte dalla religione come nuovo appagamento della sete cosmica torturante, una grazia divina che da’ mano ad un pensiero filosofico in crisi o, meglio, alla ragione inceppata.

“Che cosa – dice Agostino – se ne faceva la mia sete di un garbatissimo servitore, con tutte le sue coppe preziose?”

Ma serve la conoscenza?

Sì – risponde Ghazali, e prima di lui Agostino.

Quanto alle Scritture Sacre, esse sono come un manuale d’istruzioni che ci guida nell’uso della vita. Pretesto per affrontare il problema della conoscenza in genere, problema per eccellenza umano e tipico di ogni filosofia.

Irrequietezza e scetticismo accomunano i due grandi pensatori. Ghazali evidenzia col suo percorso filosofico e spirituale la sua inquietudine e irrequietezza.

“Io nelle circostanze avverse rimpiango il benessere, nel tempo del benessere temo le avversità” ecco l’inquietudine esistenziale dell’essere diagnosticata da Agostino.

Ghazali era malato di scetticismo ed alcuni lo presentano proprio come il precursore dello scetticismo metodologico di Cartesio.

Quanto ad Agostino, anche se capisce la legge di Mosè in latino “come farei a sapere che le cose dette sono anche vere? se sapessi anche questo, è forse da lui che lo sarei venuto a sapere?

“No: dentro di me, nella dimora del pensiero, non ebraica né greca né latina né barbara, senza labbra né lingua, senza rumore di sillabe, la verità mi direbbe: “dice il vero” e io subito rassicurato fiduciosamente direi a quell’uomo tuo: dici il vero.”  

Anche riguardo alla fede e alla religione si può istituire un parallelismo tra i due filosofi.

La ragione è come gli occhi e la fede la luce che da senso a questi occhi, pensa Agostino.

E Ghazali, nella sua opera “La ri-vivificazione delle scienze della religione” inizia proprio con due capitoli sulla libertà, la scienza e il loro ruolo per raggiungere la fede.

Per Agostino la fede incrementa l’intelligenza perché opera la purificazione dello sguardo. “Non potremmo credere - dice - se non fossimo animali razionali.”

E ancora “Credere cum assensione cogitare”.

Se qualcuno mi avesse tradotto le Confessioni in arabo e me le avesse presentate come opera di Ghazali, gli avrei creduto senza ombra di dubbio…. ma adesso che ho letto Agostino, mi viene qualche dubbio sull’originalità di Ghazali.

“Intelliges ut credas” è l’imperativo che mi sembra proprio di Ghazali, che parla anche  dell’intervento della grazia divina, senza la quale nulla potrà essere: tutto viene da dio e tutto ciò che viene da dio è bene e quindi è grazia. Anche in lui il male viene dall’allontanamento dalla legge del cuore, ove dio ha scritto tutto il bene, e dall’attaccamento alla carne e alle vanità mondane.

L’avventura filosofico-spirituale dei due sapienti è, per parafrasare il Magazine littéraire: “una mistica razionale di uomini che non smettono d’essere pensatori, filosofi, teologi profondamente segnati dall’esperienza quotidiana della vita e della ricerca spirituale.”

Si è detto che i libri di Ghazali, mentre venivano bruciati nell’Oriente arabo, nell’Occidente arabo venivano onorati. Sarà un ritrovamento “nostro” dello spirito di Agostino?

Sarà forse per questo motivo che gli algerini, avendo nel Ghazalismo una filosofia più aggiornata dell’Agostinismo, lo hanno trascurato?

Si potrebbe quindi ipotizzare che gli algerini siano gli eredi di Ghazali, a sua volta erede di Agostino, come il Corano è la continuazione della Bibbia, che l’agostinismo abbia attraversato il pensiero filosofico-religioso arabo o ancora che sia stato il platonismo - adottato anche dai filosofi arabi - a portare a questa convergenza.

Quindi che Corano e Vangelo - della stessa natura -  non possano portare colui che li indaga con spirito platonico e metodo scettico che allo stesso risultato.

Agostino, non sono solo io a dirlo, è un genio. Ma Agostino rimane un uomo. Ce lo dice la sua vita. Sì. Agostino si rivela uomo attraverso le situazioni che vive, perché anche se la situazione non crea l’uomo, pure lo rivela.

Le scritture diventano una tappa sul cammino della ricerca... dell’uomo, appunto!

 

Agostino e Roma

 Agostino fu il salvatore di Roma, dopo essere stato il testimone del  suo declino.

“Era assai erede della cultura romana da non sentire quale era stata la grandezza di quella civiltà diffusa su tutto il bacino mediterraneo.” scrive il Magazine Littéraire riferendosi al  De Civitate Dei.

Più tardi un altro grande pensatore, appartenente al periodo del declino della civiltà araba, il maghrebino Ibn Khaldoun dirà “Vita civitatis socialis est”, in arabo però.

Anche lui cercava di capire e di analizzare l’ascesa, lo splendore e il tramonto della civiltà, ma si fermò all’analisi.

Ad Agostino, senza dubbio, mancava troppo lo splendore della Roma classica che moriva, che tramontava, per non cercare di re-inventarlo e fece tutto per resuscitarla dalle proprie ceneri.

Con le sue battaglie è riuscito a sbarazzare il terreno per preparare l’ascesa dell’impero della chiesa, questa civitas dei che finora non è tramontata.

Ibn Khaldoun, suo conterraneo, non è riuscito a fare lo stesso per la civiltà degli arabi.

Ne è stato solo un grande osservatore ed analista.

Forse il genio di Agostino è stato quello di riportare la filosofia dallo stadio della contemplazione a quello della sapienza, che così come salva l’uomo dalla dispersione, dall’inconsistenza, dal tempo e dalla morte, salva la sua struttura sociale.

Salvezza dell’anima e salvezza di Roma. Così arrivò - lo saprà mai? – a quel paese celeste « Là (dove) è vita la sapienza … (a) raggiungere quel paese della ricchezza inesauribile dove in eterno tu pascoli Israele sui prati della verità … » (Confessioni).

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* Conferenza fatta in occasione della settimana agostiniana, 1 settembre 2007, a Cassiciaco (Varese) per l'Associazione Storico-Culturale S.Agostino

 

Abdelmalek Smari

 

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