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Vues et vécus en Algérie et ailleurs. Forum où au cours des jours et du temps j'essaierai de donner quelque chose de moi en quelques mots qui, j'espère, seront modestes, justes et élégants dans la mesure du possible. Bienvenue donc à qui accède à cet espace et bienvenue à ses commentaires. Abdelmalek SMARI

LA LINGUA DELLO SCRITTORE (3)

 

IL BOSCAIOLO DELLA NOTTE
Nella sua ardua e progressiva conquista della “sua” lingua, lo scrittore assomiglia al boscaiolo della notte, che può dare il colpo sicuro, come può sbagliare colpo. Tanto, il terreno è sempre nuovo e inedito e quindi con risultati incerti.
Noi, quando scriviamo, assomigliamo a questo boscaiolo della notte: le nostre parole sono un’ascia con cui operiamo nella foresta, sempre vergine, della nostra originale ignoranza della vita e della necessità d’esplorare questa vita.
Se abbiamo una vera e propria scure, degna di questo nome, e del bel legno, saremo in grado di accendere con la nostra forza tagliatrice e la resistenza delle piante nobili, scintille e a volte verosimili incandescenze che ci informano – anche se in un lampo – sui luoghi e ci mostrano la nostra posizione e il nostro cammino.
Il pensare è una tappa e allo stesso momento il primo territorio dove la parola ha luogo e da cui essa trae la sua ragion d’essere e il suo senso.
A questo punto l’idea/parola dell’uomo non è altro che lo sforzo più o meno riuscito nella presa di coscienza – da parte della mente conoscente – dell’esistenza di un dato oggetto oggettivo concreto o soggettivo sensitivo e ‘coscienziale’, nel notarlo, interrogarlo e definirlo insomma dandogli una forma, ricreandolo così, semanticamente, e comunicandolo a se stessi e agli altri.
Ma questa non è ancora scrittura. La scrittura avviene poi. La parola, come presa di coscienza e cristallizzazione nello stesso tempo di questa coscienza, è un’unità semantica che conferisce forme alle cose. Essa esiste nell’uomo ogni volta che le condizioni requisite al suo avvenimento si riuniscono (condizioni physico-biologiche e psycho-antroplogiche), come il fiocco di neve di Chomsky (30) che si forma spontaneamente ed immancabilmente ogni volta che le condizioni atmosferiche si riuniscono nel cielo di qualsiasi contrada.
La scrittura è di lunga più laboriosa: se parlare è banale ed è roba da “infanti” nel senso etimologico, scrivere non è per niente naturale.
Scrivere assomiglia più all’arte dell’equilibrista. Essa richiede cioè esercitazioni, ricerche, sperimentazioni, confronti, invenzione. La lingua della scrittura è una lingua che ogni scrittore si deve inventare ogni volta che egli si mette a scrivere. Forse è questo il significato del pensiero di Nimrod citato nel frontespizio di questo scritto.
Non è un caso se i surrealisti, dopo una fase d’entusiasmo e di zelo quasi puerili, avevano rinunciato alla scrittura automatica. Ripeto, uscire dal grembo materno è così banale e comune, ma l’arte è preziosa e si dà a coloro che la cercano attivamente, a coloro che la pagano con camicie sudate.
Tuttavia ciò che è più difficile ancora (possibile solo metaforicamente) è ritornare nel grembo materno!
Ed è qui il compito dello scrittore, o almeno le sue sfide sono di questo tipo, quasi impossibili: rielaborare semanticamente questo fiocco di neve e farne un elemento semantico adornabile, un quadro o una figura poetica. Astrarlo, dissolverne il nome, come diceva Octavio Paz (31), per mostrarne la natura vera; quella natura che le cose hanno indipendentemente dal nostro linguaggio, dalla nostra esistenza.
Ardua è l’opera dello scrittore, dunque. Niente che per mettere una virgola, c’è chi (Oscar Wilde, secondo Edward Said (32) trascorreva pomeriggi interi a metterla e a toglierla.
Infatti, coloro che scrivono sanno che, prima di optare per la minima traccia (dal punto nudo della pagina bianca al testo nella sua forma compiuta, l’opera), lo scrittore si sofferma, cancella, riprova, cambia, ritorna, esce, rientra, si alza, si risiede, si gratta, si gira a destra, a sinistra, guarda il basso, l’alto, segue una mosca che vola…
A volte solo per lo sforzo consentito per aver confermato anche una virgola, non trova il coraggio di cancellarla, figuriamoci se osa cancellare il frutto del proprio lavoro palinsestico. Anzi si trova felice di lasciarne qualche traccia che sembra apocrifa, pleonastica, ridondante, contraddittoria, inutile, ma comunque bella perché frutto di una fatica immane.

 

LINGUA TOTALE O LINGUA PARZIALE?
Quando pensai che era ora di dedicarmi per davvero alla scrittura e, mentre cercavo di scegliere fra l’arabo e il francese, mi ero trovato di fronte a un altro grosso problema: il problema della conoscenza totale della lingua: per scrivere, dobbiamo conoscere la lingua intera?
Se sì, come arrivarci?
Io pensavo che la lingua dello scrittore fosse onnieffabile cioè, come diceva Umberto Eco, ne “La ricerca della lingua perfetta…” (33) una lingua “capace di render conto di tutta la nostra esperienza, fisica e mentale, e quindi di poter esprimere sensazioni, percezioni, astrazioni, sino alla domanda perché ci sia dell’Essere piuttosto che Nulla.”
Non sapevo che per perfetta che fosse, la lingua non potrebbe mai “descrivere a parole la differenza tra il profumo della verbena e quello del rosmarino.” come diceva ancora Eco. (34)
Immaginavo nella mia testa dei programmi di apprendimento per categorie delle cose esistenti nel nostro mondo. Ho diviso questo mondo in settori di cose: fiori, alberi, essenze, aromi, verdure e frutti, animali, vestiti, pianeti e stelle, filosofie di tutto il mondo…!
Cercavo anche di attrezzarmi, leggendo ed accumulando libri e documenti per essere in grado di trovare le adeguate parole a ciò che avrei dovuto esprimere.
“Sotto la luce diffusa – scrive Émile Zola – c’era un’esposizione a colori vivaci e allegri d’un effetto mirabile. I banchi disposti in simmetria parevano aiole di fiori, la sala un giardino alla francese cui sorridesse la gamma di tutta una flora. Sul legno, nelle scatole aperte, fuori dagli scaffali troppo pieni, un fiorire di sete armonizzava il rosso acceso dei gerani col bianco latte delle petunie, il giallo oro dei crisantemi con l’azzurro celeste delle verbene; e più su, dagli steli metallici, pendevano a ghirlande stoffe lasciate andare, nastri penzoloni, che si allungavano e si avvinghiavano alle colonne, moltiplicandosi dagli specchi. Ma sopra ogni altra cosa attraeva la folla un capanno svizzero di Mignot che ci aveva perso due giornate. I guanti neri facevano il pianterreno; poi venivano quelli color paglia, gialli, rosso cupo, messi al posto loro per indicar le finestre, i terrazzi, le tegole…” (35)
Di questo tipo di descrizioni, ne avevo letto parecchie e mi pareva che gli autori fossero capaci di nominare praticamente tutto ciò che potesse capitare loro di descrivere trovando tutte le parole adeguate che gli sarebbero servite… pensavo anche che se loro erano scrittori, era perché giustamente riuscivano a dire tutto quel che volevano!
C’è da dire, en passant, che lo scrittore si deve restaurare in qualche modo la lingua vigente, imperfetta o corrotta, che l’uomo (non poeta) eredita naturalmente e necessariamente, come l’oca impara a starnazzare o il cervo a bramire.
Poi gli anni passando e, soprattutto, la vanità dell’impresa mi fecero capire che l’universo linguistico dello scrittore non deve per forza ricoprire quello della lingua in cui egli evolve, ma solo quell’universo che egli riesce a creare con la parte della lingua che lo abita, o che lui abita.
Del resto anche la lingua dell’autore stesso non smette di evolversi, di raffinarsi e di arricchirsi grazie all’evoluzione dell’autore stesso e ai suoi contatti con le altre opere e i loro autori.
In questo senso, ogni nuova opera crea una sua propria lingua, dove quella della precedente si vede rivisitata, interrogata, arricchita, levigata, re-lookata, ampliata, perfezionata, insomma trasformata.
Non solo, avevo capito una cosa in più: essendo figlia dell’ispirazione (e in secondo momento di costruzione attiva), l’opera viene a bussare alla porta dello scrittore ad ogni momento della sua vita (malato, triste, stanco, imprigionato, impedito da qualche costrizione…), e l’autore deve quindi risponderle immediatamente; altrimenti rischia di inibirla e farle “passare la voglia” di esistere.
Perciò, noi scrittori, dobbiamo cercare le nostre parole nei sinonimi, dialetti, letture e persino in altre lingue che possiamo conoscere. E se ciò non ci basta, e non ci basterà di sicuro – essendo l’opera, sempre un corpo originale ed inedito – non ci resta che il “neologizzare”.
Se il termine neologizzare è in sé un neologismo, la realtà a cui rimanda, essa, è una realtà concreta ben radicata nella vita linguistica dell’essere umano: la troviamo nei bambini fin già dai loro primi tentativi di formulare un discorso, queste parole-valigie – come le chiama Marc Olan (36) – con un senso preciso per coloro che le producono, per semplificare una parola complicata (patou per pantoufle ad esempio).
Al di là della loro utilità pratica, le parole-valigie, dice ancora l’autore, citando le parole di uno psicoanalista, sono delle verosimili creazioni lessicali.
“Sono parole-valigie che designano spesso dei conglomerati di affetti, di sentimenti, di sensazioni, di situazioni. Piuttosto che un singolo oggetto, esse descrivono una serie di cose.” E bapoum, ad esempio, significherebbe nello stesso momento “y a plus” e “c’est tombé.” (37)
Inoltre, Marc Olan paragona il bimbo che crea le sue parole inedite, ad un piccolo poeta che “prova a condividere ciò che sente nel più profondo del suo animo. Se non trova le parole adeguate, se ne inventa.” (38)
Certo, una volta acquisita la capacità di parlare la lingua dell’ambiente, il bimbo abbandona questo ricorso ai neologismi. Anzi, secondo lo stesso psicoanalista citato, è molto probabile che certe parole oggi entrate nella lingua corrente siano apparse in questa maniera, hanno cioè un’origine infantile.
Tuttavia bisogna sapere che creare neologismi non serve solamente a colmare le nostre lacune linguistiche, sotto la spinta dell’opera impaziente di uscire alla luce del giorno, ma essendo a volte l’universo da creare (l’opera) così originale e così inedito tanto per gli altri quanto per noi stessi, siamo costretti a creare nuove parole, nuova punteggiatura, nuove strutture sintattiche…
Detto questo, bisogna avere presente in mente che la nostra lingua è una proprietà che ci appartiene, certamente, ma i cui contorni e vantaggi non si sapranno mai.

 

Abdelmalek Smari


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Riferimenti Bibliografici

(30) – Noam Chomsky, ibidem.
(31) – Octavio Paz, ibidem
(32) – Edward Said in “Cultura e imperialismo” – Gamberretti Editore, Roma, settembre 1998.
(33) – Umberto Eco, ne “La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea” – Editori Laterza, Bari 1993
(34) – Umberto Eco, op. cit.
(35) – Émile Zola, “Al paradiso delle signore”, in Economia e Letteratura – inserto con Il sole 24 Ore, pubblicazione bisettimanale n. 23/2016.

(36) – Marc Olan in sciences humaines n° 274 – ottobre 2015 p. 37
(37) – Marc Olan, op. cit.

(38) – Marc Olan, op. cit.

 

 

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