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Vues et vécus en Algérie et ailleurs. Forum où au cours des jours et du temps j'essaierai de donner quelque chose de moi en quelques mots qui, j'espère, seront modestes, justes et élégants dans la mesure du possible. Bienvenue donc à qui accède à cet espace et bienvenue à ses commentaires. Abdelmalek SMARI

Finché c’è vita…(*) – 3 e fine

 

Era giunto il momento di interrogare il mondo e di ascoltare le sue risposte.

Era giunto il momento di mettere un po’ di ordine in quella giungla di idee e di impressioni cresciuta alla rinfusa nel mio animo. Una giungla che brulicava di vita, che m’incuriosiva e che volevo conoscere.

Era giunto il momento di mettere davanti ai miei occhi e davanti a quelli del mondo che mi ospita e mi circonda queste idee e impressioni per veder chiaro il mondo, le cose del mondo e me stesso.

Se mi ricordo della decisione di scrivere, non mi ricordo dei primi scritti. Forse avevo cominciato con qualche frase che non tardava a diventare una specie di poesiola o di breve racconto, brevissimo. Comunque, non li ho conservati.

Fatto sta è che un giorno – ma tardissimo, a 28 anni circa! - mi svegliai per rendermi conto che stavo già scrivendo poesie, saggi, racconti brevi e un diario. Da quel momento non ho più smesso di scrivere. Non pensavo che la scrittura fosse un altro modo di vivere: capì allora che finché c’è vita, c’è scrittura!

Con l’andare avanti in quest’esperienza, mi trovai di fronte alla necessità di riflettere sulla scrittura, il suo senso, il suo valore, le sue difficoltà, la sua lingua, il pubblico, l’editoria. E anche queste problematiche entrarono a fare parte della panoplia dei soggetti della mia scrittura. E di colpo mi gettarono nell’arena della letteratura, della politica, della storia e della società in generale.

Paul Valéry mi ha insegnato l’unità della conoscenza. Una concezione che è stata determinante nell’unificazione del mio progetto scritturale e della mia mente stessa: non dovevo aspettare di diventare botanico o medico per scrivere su un fiore o su una malattia. La letteratura sa fare di ogni dato della realtà un edificio di sapere e di poesia.

Ma il problema più grosso che avevo dovuto affrontare e che mi aveva impedito di scrivere per una decina di anni fu: con quale lingua devo scrivere? In arabo o in francese?

Certo, la lingua francese non era e non è la mia lingua, ma era come se fosse mia, come se fosse una seconda lingua madre. Non si usava forse in Algeria? Non era forse la benvenuta malgrado la nostra storia sofferta con il suo popolo? Non aveva forse un fascino? Non la adoperiamo per leggere, compilare moduli amministrativi, guardare un film e scrivere lettere?

Più tardi ho scoperto tre motivi in più che mi hanno confermato nell’idea di non avere un complesso di fronte a questa lingua intrusa:

  1. come tutte le lingue è una lingua bella per chi la capisce.
  2. è una lingua che ha più capacità di diffusione mondialmente, rispetto alla lingua araba che essa rimane un po’ locale.
  3. infine, come Malek Haddad, mi serviva per dire ai nostalgerici nella loro lingua alcune verità sulle loro pretese e mistificazioni.

Detto ciò, odio essere ingrato, perciò continuavo a coltivare la lingua araba, a usarla nella lettura e nella scrittura. Devo riconoscere che con la vita in Italia e la necessità di usare l’italiano, l’ho trascurata un po’. Ma solo dal punto di vista della scrittura, perché continuo a leggere con voracità anche nella lingua del Manzoni.

Dall’opera, il mio sguardo e il mio fascino salivano verso l’autore dell’opera. Vedevo gli scrittori e i loro alter ego, gli eroi delle loro fiction, come delle figure mitiche. Il loro statuto era dolce e tinto di una bella magia. Mi piaceva da morire. Cercavo ora di imitare i loro personaggi ora di immaginare i loro creatori e la loro vita. Desideravo di conoscerne qualcuno, e quel sogno bastava per rendermi felice. Ma essendo il mio ambiente privo del tutto di questi esseri favolosi, mi accontentavo di fantasticare sugli eroi.

L’eroe più mitico di tutti per me fu Raskolnikov, il famoso personaggio di “Delitto e castigo” di Dostoevskij. Mi piaceva vivere la sua vita solitaria, essere ignoto e alleggerito dalle catene sociali. Mi piaceva una tale vita che era piena di riflessioni e meditazioni!

Solo Milano, anni più tardi, era riuscita a farmi vivere un tale sogno. Se non era per questo motivo che avevo deciso di espatriarmi, era comunque un motivo che mi aveva dato le forze per poter resistere alle difficoltà della vita nella ghorba.

Due condizioni obiettive fecero sì che la mia brama di scrivere si attualizzò: abitare da solo e fare un lavoro d’ufficio. Due condizioni che mi avevano regalato un tempo immenso da sfruttare.

La nostra cittadina non aveva un granché di strutture di svago da offrirci: avevamo la scelta tra le chiacchiere della piazza, la moschea, il jogging e la televisione. Ma il tempo avanzava sia per uno che lavora in ufficio sia per quello che abita da solo.

Comunque io a casa leggevo e in ufficio, nei tempi morti, scrivevo (avevo a portata di mano carta, penna, scrivania e solitudine).

Ma la scrittura, questo lo seppi più tardi, è un tiranno: più andavo avanti nel tempo, più prevaleva l’imperativo di scrivere. Così, la scrittura cominciò a sgretolare lo spazio della lettura, ed io mi trovai a usare la mia notte a scrivere (avevo iniziato un diario).

Ma siccome non dovevo assolutamente sacrificare quest’altro grande piacere che era la lettura, dovetti trovare altro tempo che sottraevo alle chiacchiere di piazza, alla televisione e alla moschea! Sì alla moschea: avevo dedicato alla lettura il tempo che c’è tra le due preghiere del maghreb e la aisha. In moschea avevo letto fra tanti libri, “Ihia ulum eddin” di Abou Hamed El Ghazali” e “L’Éloge de la fuite” de Henri Laborit. 

La seconda condizione è la seguente: mio padre ci aveva costruito una nuova casa più grande in un altro quartiere. Non aveva ancora le porte e le finestre e mancava quasi tutto della finitura, ma ci andai lo stesso ad occuparla per custodirla intanto che diventasse abitabile. Ci avevo trascorso forse cinque anni. Poi i miei si erano trasferiti in quella casa nuova, lasciando quella vecchia. Toccava ancora a me di custodirla. Ne approfittai per continuare la mia vita da eremita della letteratura.

All’inizio per me scrivere significava scrivere e basta. E se c’era qualcuno che potesse leggere quel che scrivevo, ben venga. Infatti, a una mia collega, di nome Amel, avevo letto i miei primi racconti. Le erano piaciuti e così m’incoraggiò ad andare avanti. Le avevo promesso che se mai mi capitasse di pubblicare qualche racconto, avrei usato il suo nome per la protagonista. E così fu. Il nome della ragazza di Karim in “Fiamme in paradiso”, il mio primo romanzo pubblicato, è Amel.

Più tardi, questo piacere d’esser letto si trasformò in una brama insaziabile di pubblicare, d’essere letto e magari ammirato da un pubblico largo, il più largo possibile. Cosa che si realizzò in Italia… o così almeno giunsi a constatare.

Cosa ho trovato in Italia? Il mondo magico di Dostoevskij, Taddeo Raffaele, Luca Fontana, un pubblico largo colto e diversificato e una casa editrice.

Appena sbarcai a Milano, conobbi il presidente di un’associazione culturale La Tenda. Si chiamava Taddeo Raffaele. La sua associazione s’interessava (e s’interessa tuttora) di promuovere l’aspetto culturale dell’immigrazione: assicurava una scuola per l’apprendimento della lingua italiana per gli stranieri e curava la produzione letteraria di quelli che fra loro erano in vena o in grado di scrivere qualcosa. Mi misi subito a frequentare la scuola e a legarmi d’amicizia con il suo responsabile. Fu sotto il suo occhio curante e incoraggiante che decisi di scrivere un romanzo, il mio primo romanzo. Il mio italiano era ancora rudimentale, ma non risparmiavo nessuno sforzo per impararlo e adoperarlo.

Il mio amico Raffaele dirigeva i miei primi passi non solo nel correggere la mia lingua, ma anche nell’insegnarmi, sur le tas, l’arte di scrivere e il ruolo della libertà in quest’arte. Così, mi corresse un errore di metodo: pensavo che bastasse la famosa scrittura automatica dei surrealisti per poter scrivere. Invece ci voleva una disciplina e uno sforzo immane di discernimento, di ricerca del bello e del sensato e di edificazione secondo regole indispensabili della poesis. L’arte di scrivere non fa parte forse della poesia?

L’altro maestro, Luca Fontana, l’avevo conosciuto tramite la casa editrice Il Saggiatore. Faceva da Editor (correttore di bozze) presso questa casa. Mi ha insegnato che non dovrebbe esserci posto al caso nell’arte: tutti gli oggetti, tutti gli eventi, tutti i personaggi per meritare la loro esistenza nell’opera devono avere un ruolo nell’edificarla, nel crearla. E non era una lezione da poco né di facile apprendimento.

Ma scrivere non significa solo esprimersi o pubblicare, è anche e soprattutto una messa in ordine ossessiva dei mostri che la giungla - che va addensandosi ed espandendosi nell’anima dello scrittore- conteneva nei suoi arcani.

Mi ero reso conto, quanto a me, che la mia scrittura passava dalla poesia al breve racconto, dalla raccolta dei sogni a quella delle rêverie, dal romanzo al teatro, dal saggio agli sms (sì, scrivevo lunghi e sensati sms!), dalla corrispondenza ai commenti, dalla critica sociale e politica a quella letteraria e artistica, dalla riflessione sulla lingua a quella sulla scrittura in generale!

Tutta questa produzione costituisce una giungla che bisognava dissodare, curare, mettere in ordine, umanizzare.

Questa produzione doveva essere scrutata, classificata, smistata e curata.

C’è da aggiungere questa stessa opera di dissodamento a quell’altra giungla che è l’ammasso dei libri da leggere. Infatti, oramai la mia libreria non contava più la decina o ventina di libri che non hanno neanche bisogno di uno scaffale per essere custoditi; essa ormai contava parecchie centinaia di libri ai quali aggiungevo altri che prendevo in prestito. Tutti erano da leggere. Così almeno, credevo. Ma poi con il diradamento degli anni che mi restavano da vivere e il diluvio incessante dei libri che continuavano a fare straripare la mia libreria (gli scaffali) e i miei piani (i progetti di lettura), dovetti rendermi all’evidenza: non posso leggere tutto. Perciò devo fare delle scelte. E non è una cosa da poco.

Il resto sarà una routine: non solo ho avuto degli amici poeti, scrittori, giornalisti, registi… ma io stesso ero diventato uno di loro.

Prima di concludere, aggiungo che Milano, con le sue lunghe vie che si perdono senza fine nella nebbia, era alla misura dei miei desideri d’essere un personaggio mitico come i personaggi di una fiction magica. E questi orizzonti sterminati giovavano alla mia mente che si apriva per poter contenerli ed esplorarli.

 

Abdelmalek Smari

 

 

(*) Lettera a un dottorando con elementi biografici per una tesi sul mio romanzo “La trottola” - Edizioni Selecta, 2019

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