Vues et vécus en Algérie et ailleurs. Forum où au cours des jours et du temps j'essaierai de donner quelque chose de moi en quelques mots qui, j'espère, seront modestes, justes et élégants dans la mesure du possible. Bienvenue donc à qui accède à cet espace et bienvenue à ses commentaires. Abdelmalek SMARI
Caro O.,
Ti mando questa autobiografia scritta pêle-mêle, da cui potresti trarre una narrazione che andrebbe bene per l’impostazione della tua tesi.
Vedi tu.
Per la bibliografia, te l’avevo già mandata prima… e non posso aggiungerci altro.
Se hai delle domande, non esitare.
Ti chiedo solo la gentilezza di farmela leggere, se vuoi, prima di pubblicarla.
Ciao e in bocca al lupo.
Sono nato a Hamma Bouziane in una famiglia modesta, cioè povera economicamente e di cultura contadina, come la stramaggioranza degli algerini in quell’epoca di fine anni 50.
Sono nato in mezzo alla povertà assoluta in un gourbi in costruzione. Mia madre mi raccontava che quando pioveva, doveva prendermi in braccio e chinarsi su di me per proteggermi dalla pioggia!
Sono nato in mezzo alle malattie, che la miseria e l’ignoranza e l’oppressione coloniale non ci permettevano di diagnosticare, figurarsi curarcene. Io stesso porto, fino adesso, la sequela indelebile di una meningite infantile mal risolta. Mia madre, anche lei, sofferse di una malattia che le aveva impedito di allattarmi. A tre giorni, mi confidò al latte di capra che mio nonno andava a cercare ogni giorno dopo il ritorno dal lavoro.
Ma sono nato in piena rivoluzione, fonte di grandi speranze per il nostro paese. Sono nato nella sofferenza e la resistenza.
E adesso col tempo, credo che tutta la mia sensibilità sia stata segnata da queste due condizioni contrastanti. Ciò mi ha portato a leggere bene la realtà in cui vivo, con lucidità e coraggio, per cercarvi le ingiustizie e trovarle i rimedi possibili.
Senza questa ricerca, senza questo interrogarci, sarebbe impossibile capire la natura della vita che viviamo; non potremmo cioè sapere se stiamo soffrendo o stiamo vivendo una vita felice.
Senza una cultura, senza la scuola, senza la libertà d’essere noi stessi, una tale ricerca non sarebbe possibile. Certo possiamo soffrire lo stesso pur non essendo filosofi o letterati, ma l’essere umano è fatto anche per abituarsi alla sofferenza e accettarla come una specie della natura delle cose; altrimenti non possiamo andare avanti. Ed è un comportamento naturale e, quindi, necessario se vogliamo sopravvivere. Ma la cultura ci aiuta comunque a resistere nella dignità, a non capitolare.
Sotto il giogo del colonialismo, la maggior parte degli algerini erano analfabeti e tagliati fuori dalla civiltà, perciò non avevano questo lusso di interrogare la loro condizione di vita. Ma riuscivano a fare la pace con la miseria, il che li faceva apparire come sereni se non felici! Ma non è serenità, non è felicità.
E poi nonostante la cortina di ferro che la Francia coloniale poneva fra il popolo algerino vinto e martoriato e la vita decente nella civiltà e nella dignità, gli algerini riuscivano ad accendere dei lumi e accorgersi del marasma in cui vivevano, riconoscerne il colpevole e denunciarlo. A questo proposito, mia mamma soleva imprecare contro la Francia, ogni volta che qualcosa le andava storto: Takul rass fransa (accidente alla Francia) - ripeteva. Lo faceva fra i denti! Una volta le avevo chiesto cosa significasse quest’imprecazione. Fu nel mese di Ramadan, di notte, quando era alzata a preparare lo S’hor, la colazione dell’alba. Aveva ancora paura che qualcuno la sentisse e, come risposta, mi tappò la bocca. Una tale imprecazione le era rimasta anni dopo l’indipendenza dell’Algeria.
Mia mamma non sapeva leggere alcun segno grafico né arabo né latino. Mi ricordo, anni dopo l’indipendenza, era terrorizzata dal fatto di dover fare una croce per firmare un documento ufficiale! Mi pregava con lacrime calde negli occhi di non insistere e di lasciarla usare le impronte de suo indice umidificato con la sua saliva!
Mio padre invece fu più fortunato di lei: aveva seguito la scuola coranica. Sapeva quindi trascrivere il nostro dialetto. Forse aveva anche frequentato la scuola elementare “obbligatoria” per due o tre anni. Fu poi estromesso da questo percorso, da questo cammino dell’emancipazione, per parafrasare Albert Camus. Eppure, l’ambizione non gli mancava. Da grande – sperava e sognava – sarebbe andato a studiare all’università della Zitouna a Tunisi! “Un mio compagno, mi raccontava, aveva seguito quel percorso, e ora è diventato ambasciatore.”
Purtroppo, aveva ormai una famiglia che non poteva trascinare con sé e non doveva neanche lasciarla da sola in mezzo alla guerra e alle visite criminali dei goumiya collaborazionisti e dei loro padroni, i soldati della Francia coloniale.
Tuttavia questi bienfaits della colonizzazione francese in Algeria non svanirono con la partenza dell’ultimo colono dall’Algeria. L’ignoranza, le malattie, la fame, l’analfabetismo, i pidocchi, la mancanza dell’acqua, la precarietà del lavoro, l’insalubrità delle abitazioni… e – il colmo - l’alienazione culturale, gli algerini continuarono a trascinarli per un po’ di tempo.
Se l’indipendenza è riuscita con gli anni a tirar fuori l’Algeria da questa miseria sociale, economica e politica, essa non è riuscita ancora a vincere del tutto l’alienazione culturale: il ripristino della sovranità totale della lingua nazionale e l’instaurazione del senso dello stato e il suo corollario, il senso di cittadinanza. Ed è ovvio, poiché ci son voluti secoli d’occupazione ottomana e francese per allontanare gli algerini dalla sfera del potere governativo e fare loro dimenticare il senso dello stato e della cittadinanza, ci vorrà un centinaio di anni perché gli algerini riapprendano di nuovo questi strumenti della libertà e della dignità.
Come tutti i bambini algerini di quell’epoca, i miei genitori mi hanno mandato alla scuola coranica. Avevo appena compiuto quattro anni e mezzo, se non di meno. Avevo pianto lacrime vere e calde, tanto ero piccolo per una tale responsabilità insolita per noi contadini. Evidentemente, mi rassegnai subito e anzi diventai assiduo, cercando di conquistare un posto fra i primi.
Quella scuola m’insegnò l’alfabeto, un lessico, i numeri, una specie d’arte primitiva e la responsabilità morale. Il maestro ci insegnava a disegnare e colorare col giallo dell’uovo e una polverina blu-Nilo, appunto chiamata Nila. I sopporti della nostra arte non era la tela, ma la tavoletta di legno! L’utilizzo dell’uovo dovrebbe essere la rimanenza di una tradizione antica, pagana o più probabilmente cristiana, essendo l’uovo un oggetto che simboleggia la Pasqua. Tanto più ciò avveniva prima delle vacanze dell’Asciura, l’eredità mussulmana della Pasqua.
Però la pittura non si limitava a queste vacanze: ogni volta che si concludeva un grande capitolo o l’una delle quattro parti del Corano, con l’aiuto del maestro, l’alunno doveva decorare la sua tavoletta dove scriveva le sue lezioni.
Un’arte primitiva quindi, ma anche effimera, perché la tavola doveva essere ripulita per accogliere un nuovo scritto, una nuova lezione.
S’imparava anche l’arte di cantare (canti religiosi), ma senza strumenti; non perché erano haram ma perché non c’erano i mezzi. Comunque, questo per dire che la voglia d’imparare e quella d’insegnare esistevano, ma tutto era rudimentale. Soltanto più tardi, con la scuola civica, avremo avuto un vero insegnamento con maestri preparati, programmi ben elaborati e strumenti adatti e più o meno sufficienti e disponibili.
Abdelmalek Smari
(*) Lettera a un dottorando con elementi biografici per una tesi sul mio romanzo “La trottola” - Edizioni Selecta, 2019