Vues et vécus en Algérie et ailleurs. Forum où au cours des jours et du temps j'essaierai de donner quelque chose de moi en quelques mots qui, j'espère, seront modestes, justes et élégants dans la mesure du possible. Bienvenue donc à qui accède à cet espace et bienvenue à ses commentaires. Abdelmalek SMARI
Una mente come la mia e improntata fino al midollo da quello che i bravi etnologi e antropologi delle nazioni “vincitrici” e, quindi, imperialiste, arroganti e colonialiste solevano chiamare il “fatalismo orientale”. Eppure gli etologi dicono che non solo gli animali, ma persino le piante, non sono così passive (serene direbbe Octavio Paz), così “fataliste”. Gli psicologi affermano che persino il feto non è così passivo. Anzi, per loro, se esiste una vera psicologia, questa sarà lo studio appunto dell’insieme delle interazioni che reggono ogni rapporto tra le persone, adulti e bambini, alle prese con la vita.
Il fatalismo orientale in realtà non è altro che la lucidità leopardiana o schopenhaueriana. Dargli un altro significato sarebbe un’ingiustizia, un’ignoranza o una mistificazione.
Ma ammettiamo per assurdo che la categoria d’oriente e degli orientali esista geograficamente, storicamente e culturalmente; e che un atteggiamento psico-antropologico chiamato “fatalismo” - definito come passività e apatia sconcertanti davanti alle esigenze della vita - caratterizzi una gran parte del pianeta. Ciò non spiegherebbe niente della psicologia dei vari popoli che, prima ancora d’essere “radicalmente” diversi dai loro congeneri occidentali, sono molto diversi tra di loro. Ma questo dato non importa per i detentori del potere delle nazioni “vincitrici” di nominare e classificare, dando vita e dignità a chi vogliono e togliendole da chi vogliono. Queste nazioni arroganti continuano lo stesso a chiamare, per esotismo o per pigrizia mentale, popoli e culture orientali.
Quando una persona detta orientale mostra una specie di apatica disinvoltura nello svolgere un’attività o nell’emozionarsi davanti a una vicenda grave o bella della vita o quando non si dà la briga di respingere con la lotta o la fuga i mostri dell’esistenza e sembra accettare tutto con rassegnazione/capitolazione, questa persona è considerata fatalista. Fatalista perché agisce, secondo i sacerdoti delle nazioni vincitrici e classificatrici, non con coscienza e responsabilità personali, ma ubbidendo alle leggi del gregge. Per i più miti, più cinici s’intende, questa persona lo fa ubbidendo a una memoria secolare e a una filosofia saggia, profonda e frutto di grandi esperienze della vita, del mondo e dell’umanità. Da un insulto all’altro, il povero orientale non ha scampo!
I migranti sono stati sempre portatori di cultura propria, come regalo di viaggio, ai popoli che li ospitano. La migrazione non è un fatto recente, contemporaneo all’avvenimento dei mezzi di trasporto moderni e del benessere occidentale. Ci sono addirittura degli storici che ipotizzano la visita di qualche viaggiatore egizio o vichingo in America, prima che ci mettesse i piedi Colombo, il greco-portoghese-genovese. Stando a delle teorie paleo-antropologiche per ora affermate e plausibili, gli autoctoni dell’America, dell’Australia, dell’Europa non sono così autoctoni poi. La teoria della generazione spontanea delle umanità è stata polverizzata dalla maggior parte degli scienziati seri e onesti, come Sforza-Cavallo, ad esempio.
Ciò dimostra che, se persino le montagne s’incontrano, figuriamoci gli esseri viventi e a fortiori gli umani, che non sono per niente così sedentari. Quindi é da ritenere che il cosiddetto fatalismo non è né orientale né non-orientale, bensì umano; a meno che consideriamo la filosofia di Leopardi o quella di Schopenhauer come delle filosofie orientali. Ma sappiamo che il primo ha pianto inutilmente l’Uomo metafisicamente orfano e il secondo brandiva un pietoso don-chisciottismo altrettanto inutile.
Davanti alla gelida condizione dell’Essere, all’indifferenza del tempo, al mistero dell’esistenza e del nulla, abbiamo due atteggiamenti: ottimismo e pessimismo. Tra questi due estremi, c’e un’infinita di atteggiamenti che adottiamo e che vanno dal nichilismo puro e crudo fino alla gioia imbecille dell’autosufficienza e alla pazzia di voler nascondere il sole con la sottile rete di una ragnatela, per dimenticare l’indimenticabile tragedia dell’esistere e del nulla. Ed è da questa gamma di infinite sfumature che dipende la diversità dei colori illimitati delle posizioni esistenziali dell’essere umano. Fra gli stessi orientali ci sono gli impazienti. Così come fra la gente del tramonto ci sono le anime serene. La differenza tra gli occidentali e gli orientali - a parte che essa è storicamente temporanea -è paragonabile a due scale: una mobile e l’altra immobile. È ovvio che chi prenda la prima, avrà il vantaggio di arrivare presto, se egli aggiunge il suo movimento a quello della scala (il caso dell’uomo occidentale). Per l’utente della scala fissa - il caso dell’uomo orientale -, è difficile che egli arrivi presto. Se non si sforza di camminare e di duplicare gli sforzi. Ma non credo che
la differenza di base consista nell’arrivare a destinazione, perché, come dicono gli inglesi: when there is a willing, there is a way. In altri termini, giacché gli esseri umani sono condannati a camminare indipendentemente dal mezzo di trasporto, a vivere quindi, l’unica differenza è che l’impresa sarà facile per un occidentale e difficile per un orientale.
Mi ci si può obbiettare che giustamente l’occidentale è il creatore della stessa scala, mentre l’orientale è sempre in posizione di consumatore parasita. Certo, il mondo appartiene a coloro che si svegliano presto, dice un proverbio occidentale(!), ma quelli si sono svegliati presto non avevano alcun interesse a svegliare i ritardatari. Anzi, per secoli li hanno schiacciati, riducendoli allo stato di in-operanza esistenziale e di civiltà. Mi ci si può fare un’altra obiezione dicendo che quel tempo del colonialismo è passato e che ora quei popoli sono liberi ma non combinano nulla di buono; sono sempre lì a dipendere dagli occidentali. Quest’obiezione non regge, perché si sbaglia di brutto quello chi pensa che le pratiche di sabotaggio dei popoli vinti sia smesso: pensiamo solo alla caccia degli scienziati iracheni e iraniani. Pensiamo alle persecuzioni dell’Iran e della Corea del Nord e di tutti i paesi che cercano di avere un po’ di serenità per dedicarsi alla conquista della dignità e uscire da questo stato di parassitismo culturale e di civiltà, per costruirsi scale mobili proprie e altri ascensori…
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* Lettera agli autori, in "Ospitare e curare" Franco Angeli 2002, Milano – A cura di Renato Rizzi e Augusto Iossa Fasano
Abdelmalek Smari