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Vues et vécus en Algérie et ailleurs. Forum où au cours des jours et du temps j'essaierai de donner quelque chose de moi en quelques mots qui, j'espère, seront modestes, justes et élégants dans la mesure du possible. Bienvenue donc à qui accède à cet espace et bienvenue à ses commentaires. Abdelmalek SMARI

LA FUITINA (*) 1

 “Ogni membro appartenente alla comunità romani è figlio del dolore e dell’incomprensione, ogni autore è cantore della sofferenza, ogni canto è un intenso lamento mai disgiunto dalla speranza. Forte è nel popolo romanò il senso del riscatto e della ribellione, dell’amore e della pace, della fratellanza e della libertà. Neanche la morte è vista con orrore, ma come un mezzo per esorcizzare gli eventi della vita.”

Santino Spinelli “Rom Questi Sconosciuti” – Mimesis Edizioni (Milano - Udine) 2016

 

L’avevo vista per la prima volta a una riunione tra amici comuni, più precisamente una festa organizzata da un’associazione culturale.

Le piaceva la vita associativa, come mi aveva detto. “È una cura contro la noia e soprattutto la mediocrità del trantran quotidiano.”

Io allora come ora ero riservato, ma ciò non m’impedì di puntarla e seguirla con uno sguardo vigile per gran parte della serata. Anche lei si era accorta della mia presenza in quell’angolo riservato che occupavo e al quale mi ero inchiodato. Avrei voluto correre verso di lei e confessarle la mia subita infatuazione, ma fu più veloce di me.

Venne lei da me ed è stato meglio. Se mi avesse aspettato, forse non ci saremmo mai conosciuti. Per fortuna anche lei aveva una gran voglia di conoscermi. Me lo disse quella sera stessa e giungemmo a scambiare qualche parola e chiacchierare un po’.

Aveva una capigliatura folta o, meglio, una verosimile criniera da belva. Il suo viso era bello, roseo  punteggiato di efelidi sulle guance. Il che le creava un’aurea di luce quando sorrideva o quando rideva.

La trovavo sensuale con i suoi occhi neri e luminosi, un tantino strabici, resi più profondi dalle folte ciglia scure. Somigliava a una bella principessa del Marocco. Nel suo viso contrastavano il rosa di una pelle delicata e il rosso acceso delle labbra. Magrolina, che dico?, una ragazza formosa, in realtà una falsa magra. I vestiti, molto semplici, le stavano a meraviglia: una camicia bianca a cuoricini rossi, dei pantaloni neri di lino, ai piedi sandali bianchi. Dalle mie parti si dice: anche gli stracci non guastano la bellezza.

Faceva l’insegnante e io dei lavori saltuari. I suoi bisnonni avevano lasciato l’Italia per stabilirsi in Brasile, ma i loro figli, cioè i genitori di lei, una volta raggiunta la maggiore età, fecero ritorno alla terra dei padri. Non era quindi strano che lei avesse ereditato un po’ della lingua brasiliana. Aveva anche soggiornato più o meno dalle parti di Sao Paolo.

“Tufik” mi presentai.

“Era ora. Io mi chiamo Romy”.

“Wow!” mi scappò “come Romeo amava Giulietta…” mi trovavo a canticchiare, in silenzio. Gioivo e ricordavo la calda voce della cantante francese che cantava quelle parole. Sembrava che l’amore fluisse limpido e bello con il fluire di quella melodia e di quelle parole.

Romy, il suo nome, mi piaceva da morire, evocava in me l’amore stesso, bello come l’innamoramento.

Lei si interessava alla letteratura, e io pure. Questa affinità ci aveva avvicinato molto e avevamo parlato di qualche libro e di qualche autore. A me succedeva di scrivere di tanto in tanto qualche brano come fosse una poesia e mi piaceva farlo leggere agli amici.

Quella sera le avevo letto l’ultimo arrivato. Le era piaciuto, ma mi aveva consigliato di lavorare ancora un po’ sulla lingua. “La tua” mi disse “è una lingua ancora scolastica, sembra un po’ artificiosa e quindi può apparire arida. Dovresti renderla più viva usando insieme la lingua dell’aria aperta, della quotidianità, della gente e delle infinite situazioni e sensibilità, della vita insomma in tutte le sue sfaccettature.”

Mi piacque questa critica. O forse mi piacquero il modo e la voce con cui era stata pronunciata.

“Scrivi anche dei racconti?” mi chiese. “Non mi attirano. Mi piacerebbe piuttosto scrivere un romanzo, ma non ho abbastanza fiato per quello.”

“Eppure scrivi poesia. Anche i racconti brevi si basano sulla capacità di sintetizzare… ma forse è una questione di gusto.”

“Ecco, l’hai detto.” “Proviamo a scrivere un racconto insieme? Ti va di fare questo gioco?”

Mi eccitai o forse mi resi conto che ero eccitato. “Mi va” dissi quasi soffocato dall’emozione “mi va di fare questo gioco, serio, con te”.

“Uno può non essere d’accordo con l’altro” continuò lei.

Attorno a noi non si sentiva che un ronzio attutito, interrotto di volta in volta dallo stridore di una risata o di qualche esclamazione.

“Cosa hai detto?” chiesi dopo una breve distrazione. “Dicevo che uno può anche non essere d’accordo con le idee dell’altro…”

“E perché, secondo te, dovremmo avere le stesse idee? Le differenze, quando si sommano, creano ricchezze. E le somiglianze non aggiungono nulla alle nostre esistenze, se non la noia del déjà-vu.”

“Le differenze possono essere anche degli ostacoli… a volte insuperabili, sai?” corresse lei.

“Se lo dici tu… scherzo. Hai ragione, mi piace scherzare.”

Lei sorrise. “Comunque cercheremo una via d’intesa. Uno può suggerire un cambiamento ma se all’altro non va, si può sempre ritornare alla formula di prima. Sei d’accordo? Vediamo se dà qualche frutto.”

Sulla formulazione di questo progetto ci eravamo salutati.

 

 

(*) - Avrei potuto scrivere qualcosa di diretto su La Tenda, che mi ha accolto come una nuova madre. Una madre affettuosa e generosa. Una madre che mi prometteva una nuova vita a misura dei miei sogni e desideri, quando sbarcai a Milano, orfano di amici, parenti, feste, piaceri, sicurezza, persino di lingua, insomma orfano del calore umano e dell’affetto che avevano riempito la mia vita fino ad allora… quella stessa vita lasciata dietro di me irrimediabilmente o almeno che non poteva più essermi utile o essere semplicemente mia. Avrei dovuto scrivere qualcosa del genere, ma temetti di cadere nel kitsch.

Perciò ho pensato di scrivere un racconto che vuole essere un omaggio a questa seconda madre tenera che ha fatto tanto per me e che mi ha regalato nuovi fratelli e amici e che mi ha fatto conoscere amori indimenticabili.

Questa generosa madre mi ha educato a una nuova cultura, a una nuova e meravigliosa lingua, a dei nuovi valori di amicizia e di rispetto, a una nuova arte, l’arte della poesia.

Avrei potuto scrivere una cosa del genere, ma ormai il tempo stringe e io devo terminare ancora il racconto.

La Tenda, grazie soprattutto al suo fondatore e presidente, ha fatto e fa ancora un lavoro utile e davvero indispensabile in campo culturale, non solo presentando la parte migliore dell’Italia agli ospiti che questo paese ha accolto, ma come una mamma-uccello ha reso gradevolmente assimilabile la cultura italiana a questi ospiti affluiti da ogni parte del mondo. Ha fatto sì che questo incontro non diventasse uno scontro ma divenisse un’opportunità di arricchimento per entrambe le parti, ospiti e ospitanti.

Spero solo d’essere all’altezza di ricambiare questa sua generosità. Sì, personalmente mi ha aiutato a cancellare certi stereotipi e pregiudizi verso popoli e comunità represse e stigmatizzate.

Questo racconto vuole essere una testimonianza che getti luce su una comunità innocente sempre perseguitata, umiliata ed esclusa dalla sfera umana.

Adesso che questa insostituibile associazione compie i suoi vent’anni di esistenza e di ininterrotta attività, le auguro, non proprio cento, ma almeno altri venti di questi anni laboriosi e fruttuosi per divulgare ancora cultura, ancora umanità, ancora poesia.

Abdelmalek Smari

 

 

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