Vues et vécus en Algérie et ailleurs. Forum où au cours des jours et du temps j'essaierai de donner quelque chose de moi en quelques mots qui, j'espère, seront modestes, justes et élégants dans la mesure du possible. Bienvenue donc à qui accède à cet espace et bienvenue à ses commentaires. Abdelmalek SMARI
عام سعيد لكلّ الأصدقاء الكرماء
Buon Natale e felice anno 2018!
Joyeux Noel et Bonne année 2018
Cari Amici,
con questa pubblicazione, chiudo l’articolo e l’anno 2017… mi dispiace tanto, ma devo per forza strappare il calendario di quest’anno ormai desueto, archiviato, morto…
Ma il momento non è alle tristezze… la vita continua…
Vi faccio tanti buoni auguri di Natale, per chi lo festeggia, e di buono nuovo Anno 2018, ricco – spero – di opportunità, di progetti e di realizzazioni nonché di buona salute … ed è ciò la vera felicità.
Forse l’anno 2017 è stato un po’ duro, ingeneroso, con questo blog… tuttavia non è stato poi così terribile: qualcosa di buono è venuto ad arricchirlo
Spero che, anche per il mio blog, che è anche vostro, l’anno 2018 sarà pieno di scritti di grande senso e di profonda sensibilità.
Bisogna pur vivere, no!
Bisogna riconoscere che certi scrittori algerini – nel periodo coloniale – hanno fatto di necessità virtù: in assenza della loro lingua madre e avendo comunque bisogno di una lingua “decente” per esprimersi, essi si erano rassegnati alla lingua francese. Le loro opere ci dicono quanto hanno saputo apprezzare e fecondare questa lingua.
In “Nulle part au pays de mon père” la scrittrice algerina Assia Djebar paragona il suo bilinguismo e quindi quello del suo popolo, al piccolo che attinge il suo latte da due mammelle. (51)
Io personalmente, mi ero sempre visto nei sogni corteggiare due donne al contempo: una bruna e l’altra bionda; mi sembra che la presenza dell’una attirasse quella dell’altra.
Per mia madre, che non sospettava l’ambiguità freudiana sui generis dei sogni e delle altre manifestazioni psichiche nell’uomo, si trattava senza dubbio delle due letterature araba e francese con cui suo figlio era alle prese nell’ambito della scuola algerina che dispensava l’insegnamento in queste due lingue: l’arabo e il francese.
Fantasticando sul suo primo appuntamento d’amore dove pensava di “poter permettersi un’ora di libertà con uno sconosciuto e conoscerlo” Assia Djebar rimase perplessa di fronte a un dilemma: Quale lingua le sarebbe convenuto usare con questo sconosciuto?
Quindi scrisse: “Conversare già dalla prima volta in lingua araba, mi sarebbe sembrato soccombere a una certa familiarità [il fatto è che] il francese, così neutro, mi servirebbe in qualche modo da velo.” (52)
E se il suo sconosciuto di sahariano le avesse chiesto un bacio nel suo dialetto “Forse avrei ceduto, perché la musica del suo dialetto meridionale avrebbe probabilmente destato in me il desiderio di sfiorare le sue labbra, e persino il suo viso, … (…) comunque, non sarei fuggita come una bambina ridicolmente spaventata e sentendosi in colpa,…” (53)
Assia Djebar si sentiva come orfana di quella lingua, la sua lingua madre, la lingua dei grandi poemi arabi che la traduzione in francese riduce “purtroppo, ad una pelle essiccata”, dove “il significato viene reso prosaicamente, mai con il canto di fondo “.(54)
Tuttavia, lei trovava indecente il parlar amoroso dei giovani algerini, non perché l’arabo non si presta ad un linguaggio di amore e di sentimenti, ma lei pensava che i giovani andassero a cercare tale parlar nel bordello.
Del resto nessuna lingua viene a meno dal poter dire tutte le faccende del vivere dei suoi utenti. E in questo non esiste una lingua più furba o più naif, più facile o più difficile, più vereconda o più puttanesca dell’altra.
La capacità/incapacità di una lingua è un falso problema che sa più di ideologia che di verità scientifica.
Le lingue sono gerarchizzate solo ideologicamente, la realtà è diversa: ci sono lingue che hanno più vocaboli per dire deserto, leone, ghiaccio… che altre lingue. Tale ricchezza non è però segno di superiorità, ma è solo specializzazione.
Ma la Djebar non è così superficiale da buttare il bambino con l’acqua sporca: come tutti i vinti della sua stirpe, a cui il colonialismo aveva confiscato la lingua madre, fece di necessità virtù. Così finì piuttosto per vedere in entrambe le lingue “rivali?” due facce di una stessa poesia che avvolgevano il suo corpo.
Lei non è la sola tra gli algerini che hanno guardato la lingua francese con occhi critici, definendola chi come lingua del pane, chi come lingua dei vinti, chi come lingua dei colonialisti dominanti, chi come lingua della resistenza …
Il suo connazionale, Mouloud Mammeri, in uno dei suoi romanzi, ha fatto dire a uno dei personaggi: “aveva imparato il francese, perché, è ovvio, bisogna pur vivere, no! (…) [Lingua] che aveva conquistato con una lotta feroce, ma cui le parole erano come lo stetoscopio o il bisturi, dei semplici strumenti.” (55)
Infatti, come è noto, il francese non ci è stato offerto su un piatto d’oro, l’abbiamo conquistato per una questione di sopravvivenza; a maggior ragione, era sempre stato per noi la lingua dell’esofago, e non – come pretendono alcuni alienati fra gli arrivisti francofoni, come tale Rahimi Attiq (56), un linguaggio libero, sublime, audace e insegnerebbe pertanto la libertà, il sublime e il coraggio intellettuale.
Il tunisino Mahmoud Messaadi, ex Segretario di Stato per l’Istruzione, esprime più ufficialmente il parere di Mammeri. Per lui, quando i tunisini – e questo vale anche e soprattutto nel caso degli algerini – imparano la lingua francese, in realtà si tratta “non tanto d’imparare una lingua straniera quanto di usare uno strumento (…).” Fitoury (57)
Kateb Yacine, a cui si attribuisce il famoso motto, ironico di sicuro, “la lingua francese è il nostro bottino di guerra” la considera a volte come bottino di guerra – strappato per la forza della lotta e dello sforzo, talmente i francesi furono avari della loro lingua (volevano mantenere gli algerini nell’alfabetismo totale!) – a volte come strumento di dominio.
Dice a questo proposito che egli scrive “in francese perché la Francia ha invaso il [suo] paese e che si era tagliata una posizione di forza tale che dovevamo scrivere in francese per sopravvivere; ma scrivendo in francese, [lui ha le sue] radici arabe o berbere che sono ancora vive.” Fitoury (58)
Un’idea che aveva ribadito anni dopo, quando diede il suo parere sulla francofonia, in cui vedeva uno strumento di dominio neo-colonialista della Francia: “Si tratta di una macchina politica neo-coloniale, che non fa altro che perpetuare la nostra alienazione.” (59)
Uno strumento di dominio, dunque, una sorta di guinzaglio nelle mani della Francia, che le permette di tenere – docili e legati come dei cani – i suoi ex colonizzati e i loro discendenti.
Bottino di guerra, ho detto?
Certamente, ma è il bottino di una sposa violentata: un bottino che possiamo paragonare allo sperma che lo stupratore lascia nel grembo di questa sventurata…
Ed è, sicuramente, in questo senso che bisogna capire l’ironia di Kateb Yacine quando parlava di bottino. Ma non era affatto un obnubilato di mente o un senza-dignità da credere in ciò che la sua espressione ironica (molto amara) suggerisce.
Sapeva che uno stupro è spesso accompagnato da un coito. E il coito è sempre seguito da un corso di spermatozoi e, di conseguenza, da un’infinità di vergogna e di umiliazione per la vittima violentata…
Un altro poeta algerino, Malek Hadad, che pur scrivendo anche lui in francese, vi vedeva una lingua che non è affatto inerente all’animo algerino né può parlarne, ma rimane comunque una bella risorsa per resistere all’oppressore francese.
Lekhel Djamel, un grande scienziato algerino poliglotta, stabilitosi a Zurigo, ha formulato chiaramente il “non-ne-posso-più!” della stra-maggioranza degli algerini che si vedono ancora costretti, 60 anni dopo la fine dello stupro coloniale, a continuare a trascinare questa grande palla che il loro stupratore ha messo loro ai piedi.
Lo scienziato si stupisce che gli algerini siano “ancora attaccati alla Francia, mentre essa stessa ha dei problemi con la lingua inglese. Se vai – dice ancora – ad una conferenza scientifica, tutti ridono quando l’intervento si fa in lingua francese.” (60)
Per quanto mi riguarda, devo dire che il fatto di conoscere più di una lingua, invece di crearmi noia o impacci, mi rende un grandissimo servizio: mi aiuta ad acchiappare le idee che sembrano temere la pazienza, o la luce della nostra coscienza!
Se non le infilzo subito, queste idee svaniscono; perciò quando la parola adeguata mi manca, mettiamo in arabo, ricorro subito alle altre lingue. Questa procedura mi aiuta assai non solo a non perdere le idee, ma anche a non perdere il filo del ragionamento.
Le parole provenienti da lingue diverse finiscono per acquisire in qualche modo lo statuto di sinonimi.
Infatti perché ad esempio una parola come Contento debba accomodarsi d’avere per sinonimo un’altra parola fatta da suoni completamente diversi come Gioioso, ed aborrire una parola araba come Farhan o inglese come Happy?! Nelle mia mente da poliglotta tutto trova posto.
In ogni modo, è così che la mia mente funziona quando, scrivendo per esempio in arabo, invece di una parola araba, è una parola italiana o francese che mi viene in mente.
Se ho tempo, cerco di uniformare linguisticamente il discorso, ma se le idee premono, non devo rimanere lì a supplicare o ad aspettare: uso ciò che è presente nella mia mente, e via!
Imposta o scelta, la conoscenza di una lingua supplementare è sempre benvenuta per la gente sensata.
L’importante è che non sia uno strumento di alienazione o di schizofrenizzazione.
Lingua della poesia e lingua della prosa
Personalmente, mi viene quasi spontaneo, durante lo stimolo della scrittura, non solo di riconoscere che sto per scrivere in tale o tal altro genere, ma anche di usare un ritmo e una lingua diversi a seconda del genere proiettato.
Ovviamente è la mia cultura letteraria che mi porta a fare tali distinzioni e tali scelte. So intuitivamente – per averne letto abbastanza – che una poesia dovrebbe essere di una precisa forma, con precisi suoni musicati, disposti in versi, rimati se è possibile.
Del resto si sa, per parafrasare Todorov (61), che i poeti imitano Omero e, più tardi, Khayyam o Dante, non di sicuro la natura.
Poesia e prosa hanno questo in comune: dopo Spinoza gli scrittori di entrambi i campi hanno smesso di credere nella verità e tanto meno di cercarla o di offrircela.
Quel che è rimasto invece è il senso delle loro opere. E in queste, il senso non mancherà mai: basta saperlo cercare e formulare.
Ma se nella prosa il senso è un fine, in poesia esso è solo pretesto, perché sono le parole in sé che il poeta cerca.
Come dice Todorov 62 le parole della poesia non sono più dei segni, bensì dei motivi. In questo senso esse sarebbero come delle perle assemblate in una forma sempre originale, che il senso lega tra di loro come il filo di una collana.
Il genere di prosa e quello di poesia dipendono dal “doppio stato” (Mallarmé) che caratterizza la stessa parola: bruta o immediata nella poesia, essenziale nella prosa. In altri termini la poesia parla, la prosa pensa.
Un’altra differenza tra poesia e prosa consiste, secondo gli adepti dell’arte per l’arte, nella posizione dell’una e dell’altra nei confronti dei valori morali. Mentre la prosa tende ad affermare e celebrare questi valori, la poesia tende a sbarazzarsene.
Insomma la poesia sarebbe io contro tutti gli altri, mentre la prosa sarebbe io con gli altri.
Bisogna credere nell’esistenza reale di una tale indipendenza della poesia – indipendenza che sfiora l’impossibile?
Per Todorov, per cui ogni testo è un palinsesto, la poesia “è al contrario interamente dipendente della tradizione letteraria: solo l’esperienza della letteratura può dare a qualcuno l’idea di scrivere un’opera letteraria” 63.
Per concludere, possiamo dare, in onore a Tzvetan Todorov, una definizione esclusivamente letteraria della lingua dello scrittore, dicendo che essa consiste in tutto quel materiale di cui è fatta la sua opera, testi e palinsesti, dal punto e la virgola, passando per la parola ritenuta, per la frase, per il tratto che di tanto in tanto li cancella, fino al mega testo finale pubblicabile o non, fino all’insieme dell’Opera, con la O maiuscola.
Abdelmalek Smari
I° stesura del 23-09-16 per il convegno de La Tenda
II° stesura del 01-12-16 rivista e rielaborata per El Ghibli online
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Riferimenti Bibliografici
(51) – Assia Djebar, “Nulle part au pays de mon père” – Librairie Arthème Fayard, 2007.
(52) – Assia Djebar, op. cit.
(53) – Assia Djebar, op. cit.
(54) – Assia Djebar, op. cit.
(55) – Mouloud Maameri, “L’opium et le bâton » – Plon 1965
(56) – Abdelmalek Smari http://archivio.el-ghibli.org/index.php%3Fid=1&issue=09_36§ion=6&index_pos=1.html –
(57) – Chadly Fitouri, ibidem.
(58) – Chadly Fitouri, ibidem.
(59) – Kateb Yacine, http://www.echoroukonline.com/ara/articles/499035.html
(60) – Lekhal Djamel, https://www.youtube.com/watch?v=HwDQz5Fnlqc
(61) – Tzvetan Todorov “Critique de la critique”, ibidem.
(62) – Tzvetan Todorov “Critique de la critique”, op. cit.
(63) – Tzvetan Todorov, ibidem.