Vues et vécus en Algérie et ailleurs. Forum où au cours des jours et du temps j'essaierai de donner quelque chose de moi en quelques mots qui, j'espère, seront modestes, justes et élégants dans la mesure du possible. Bienvenue donc à qui accède à cet espace et bienvenue à ses commentaires. Abdelmalek SMARI
Mihi manus sanguinis immundae
Il suffit d'une étoile à portée de la main
Pour conjurer le sort
Dormez enfants du jour vos paupières demain
Reconnaîtront les morts
Ils vous apporteront ce qu'ils aimaient le mieux
Ce qui ne déçoit point
Les ombres du couchant les fontaines les lieux
L'odeur triste du foin
S'ils laissent un matin un arbre un écureuil
Un oiseau qu'on entend
Remerciez-les avant qu'ils ne passent le seuil
Après il n'est plus temps
Ne méprisez jamais les dons que font les morts
Ils n'ont pas autre chose
Le choix n'est pas si grand quand on est loin du port
Et jamais ne repose. Anonyme N.r.f
“Spero anche di riuscire a scriverti qualche parola sulla materia del tuo libro e sulla tua scrittura, così, per scambiarci qualche idea… perché no?
Comunque mi piacerebbe – sinceramente – tanto riuscire a stendere qualche rigo sul tuo bel romanzo.” Malik 29-02-08
Caro Augusto,
ecco dunque giunto il momento di onorare la mia promessa. Spero solo di riuscire a farmi capire… Ti ringrazio intanto per le due segnalazioni che mi hai mandato circa l’intervista televisiva tua e la recensione su Repubblica del 15-03-08 e, più tardi, per le 18 recensioni.
Ciò che seguirà sarà una specie di impressione personale che la lettura del tuo libro mi ha suscitato.
Tutto delle mie letture, quelle pertinenti, spesso diventa una specie di materia prima da impastare di nuovo con nuovi elementi per creare una nuova forma, un nuovo scritto che contribuisca, me lo auguro, all’arricchimento della cultura.
Ed è ciò che io chiamo critica o così almeno io concepisco la critica. Criticare per me non vuol dire quindi denigrare né inneggiare ma solamente esprimere ciò che l’arte dell’altro suscita in noi.
Chi ha visto o ha letto questi due interventi dopo la lettura del tuo romanzo “Albanaia” rimane, come dire, con un po’ di voglia ancora negli occhi.
L’intervista televisiva è stata molto breve ma non è qui che risiede il problema: sappiamo che il tempo della tv è così prezioso come è preziosa la parola di un monarca fra la plebe.
Il poco tempo che ti hanno concesso (e forse anche l’impostazione/imposizione della domanda o dell’argomento) dava l’impressione che tu stessi difendendo lo statuto o la dignità del tuo scritto come romanzo!
In più mi sembrava che ti sentissi quasi in imbarazzo per il personaggio: solo perché si appoggiava al ricordo di tuo padre come ti appariva attraverso il diario?!
Comunque, romanzato, il personaggio principale di Albanaia è diventato simpatico, pur essendo stato un fascista esemplare.
Certo è che il lettore (come l’autore stesso che afferma nell’intervista tv su Rai I di essere ideologicamente diverso dal personaggio) rimane libero dal condividere o meno l’ideologia del protagonista e non deve nemmeno sentirsi responsabile davanti alla storia degli “altri”; a meno che si cerchi di usurparne le glorie, allora, per onestà intellettuale e per coerenza metodologica, si deve assumerne anche i punti neri della stessa storia.
Simpatico quindi è il protagonista, non per la sua discutibile ideologia, ma per lo sguardo umano, troppo umano, che egli pone su questa medesima ideologia.
Del resto, come avrebbe potuto presentarcela, quella follia, se non avesse assistito in quel modo, lucido, organico e viscerale, allo svolgimento dei suoi eventi estremi? Eventi estremi perché estreme erano la crudeltà e la bêtise umane che davano loro corpo e forza.
Il protagonista non fugge (per fortuna!) di fronte alla sua condizione d’essere uomo, versione fascista, anche se si tratta d’assurdità.
Ma in quel contesto storico-politico - in cui il colonialismo, lo sfruttamento e l’oppressione dei popoli, quei fardelli per il pover’uomo bianco, regnavano indisturbati come compiti nobili eretti a imperativi morali – in quel contesto perverso, chi avrebbe potuto avere la lucidità di contestare efficacemente la situazione piena di contraddizioni e di degenerazioni?
Ci voleva una certa presa di coscienza di quello scandalo. Ma come arrivarci?
Ci si è arrivati vivendo l’epoca purtroppo come ci si presentava.
Il destino del protagonista è una specie di remake dell’antico mito di Orfeo negli inferi. È questo che a mio parere lo rende attraente.
Non disprezzate mai i doni che fanno i morti
Non hanno altra cosa
La scelta non è così ampia quando si è lontani dal porto
E mai tranquillizza.
(traduzione mia degli ultimi 4 versi anonimi citati nel frontespizio.)
Arriviamo alla recensione di Repubblica. Anche qui, a leggerla, si rimane inappagati. Non per la sostanza della recensione, che io trovo valida e fedele all’anima del romanzo ma per le sue dimensioni e la sua collocazione. Era un minuscolo trafiletto perso in un campo vasto dove cresce altra erba più dannosa che inutile e stolta.
Nonostante che sapessi già dove si trovava, perché me l’avevi indicato, non sono riuscito a scovare quella recensione al primo colpo! Anzi mi era venuto il dubbio che tu avessi confuso il giornale o la data.
Rivedendo il tuo messaggio, ho perseverato nella mia ricerca in quella selva disorientante di trafiletti. Mi è venuto anche il dubbio che quel modo di fare fosse più una mistificazione che un’informazione delle novità editoriali. Mi conferma in questa mia credenza il fatto che lo stesso numero dello stesso giornale riservava con grande garbo, generosità, look e spazio a tre monumenti della cultura stra-ruminati e stra-sfruttati (a livello mediatico-editoriale): Mozart, Pavese e Camilleri.
Questi autori stra-presenti, come tanti altri loro pari e simili, sono così tanto invocati in tutti i media e in tutte le editorie di tutto il mondo, non so da quanto tempo già, che sono diventati banali e le loro opere sterili perché non dicono più nulla di nuovo se non ciò che ci è stato detto e ri-detto mille volte.
Che tristezza… e che ingiustizia, anche!
Così si trascurano gli altri, quelli che non sono morti ancora o quelli che non vendono di più. Questo è senza dubbio un culto di statue assurdo, un'idolatria umiliante per la dignità e l'intelligenza umana.
Tutto ciò che riesce a farsi luccicare d’oro o d’argento diventa un dio, da venerare dallo stormo degli opportunisti e degli arrivisti; persino i morti diventano un banchetto copioso per queste carogne di arrampicatori.
Ma veramente, solo i morti hanno una manna (baraka, come si dice in arabo e ormai anche in francese) che ci permette, per un certo incanto cretino, di poter considerarci un Dante o un Agostino solo perché riusciamo a parlare non soltanto di loro ma anche - pretesa! – al posto loro?
Sarà per questo motivo che sono degni di una venerazione infinita che continua a tramandarsi da generazione di critici a generazione?
Oppure il culto dei morti avviene giustamente perché, essendo morti, essi non sono più né concorrenti né offensivi per l’ambizione dei vivi?
O perché essendo ormai così lontani da noi che non sono più in grado d’incuterci nessuna paura d’essere assoggettati o dominati da loro?
Qualsiasi sia il motivo di questo atteggiamento dei nostri critici contemporanei, personalmente lo trovo ingiusto e cafone.
Ora cercherò di buttare giù le mie impressioni come mi si erano presentate man mano che la mia lettura procedeva. Se c’è qualche filo logico in queste impressioni, esso dipenderà dall’umore in cui mi mettevano la narrazione e l’evoluzione degli eventi, i dati assurdi e tragici su quell’epoca storica ed infine le caratteristiche dei personaggi e il modo in cui consideravano e vivevano quell’epoca tragica e, attraverso essa medesima, come vivevano ed assumevano con impotente ribellione o con docile rassegnazione, la condizione umana in versione tragico-bestiale.
Tanto per cominciare posso fare una considerazione sul mimetismo dei giornali per non parlare dei giornalisti o dei media.
È ovvio che i giornali e i giornalisti sono sempre al servizio non di ideali, ma dell’ideologia dominante. Perciò essi cambiano bandiera appena l’ideologia dominante cambia rotta o colore.
Mi ha divertito il fatto di scoprire ad esempio come il Corriere della sera è oggi e come esso fu in quell’epoca nera del fascismo.
È un’ironia della sorte che questo “venerabile” giornale, che oggi si pone come il difensore degli ebrei per eccellenza, sosteneva senza esitazione l’ideologia fascista fautrice delle famose e tetre leggi razziali.
Certo, possiamo sempre trovargli una scusa, ma intanto il danno a cui aveva contribuito questo organo mediatico (non è l’unico) non è cancellabile.
Il colmo è che questo stesso giornale “pentito” sta portando la stessa guerra contro altre genti solo perché esse sono di una confessione diversa da quella dei suoi padroni e funzionari.
Un’altra cosa che ho notato è che nel romanzo, dal primo fino al penultimo capitolo, “apparentemente” non si ride se escludiamo quel rictus più che sorriso che di tanto intanto la sofferenza umana provoca appunto per l’assurda condizione di quegli infelici soldati vittime grottesche d’essere insieme oppressori ed alienati oppressi.
Con l’ultimo capitolo invece si ride, forse perché si avverte già la fine del calvario. Ma subito dopo con la “Nota dell’autore”, più precisamente nello schizzo dell’esile ma denso diario della moglie, innamorata cotta, si ritorna alla gravità e al ritegno.
Diario denso di profondo amore e di sentita tenerezza che si alimenta della nostalgia inconsolabile del padre per il figlio. Queste sincere preghiere e le parole ardenti di Nene sono squarci d’amore e di poesia che hanno suscitato in me calde lacrime e una profonda meditazione.
Però, l’assenza del riso e della costernazione di fronte alla tragicità della storia non significa assenza d’ironia. Secondo me aprendo ogni capitolo con una citazione de “Il popolo d’Italia” riesci bene non solo a smentire ogni discorso mistificatore dei fascisti ma soprattutto a garantire quel poco d’ironia di cui ogni opera d’arte ha bisogno per continuare a respirare e a vivere quindi nel tempo.
La stessa tecnica l’avevi usata in “Figlio unico di madre vedova” ma là la sua funzione non era di rendere ironico il romanzo bensì quella di un taglio sinclinale nel tempo della narrazione.
Tornando ad AlbaNaia, si può notare che, pur presentandosi come romanzo, il libro non s’imbarazza dal fatto che siano state incluse una prefazione e una nota dell’autore. A pensarci bene, possiamo anche non leggerle e accontentarci del piccolo scritto della seconda di copertina che già di per sé costituisce un orientamento assai sufficiente per il lettore.
Il resto, in sé, non è superfluo ma forse avrebbe potuto trovare altrove una diversa collocazione. La Prefazione di Giorgio Galli avrebbe fatto lo stesso effetto sul pubblico, se non di più, se fosse stata pubblicata indipendentemente dal volume del romanzo, come recensione ad esempio. Così anche si può dire della Nota dell’autore: l’autore avrebbe potuto pubblicarla come intervista, cioè come un altro testo autonomo, anche se legato al romanzo.
Il romanzo sembra quasi soffocare tra questi due corpi, estranei nonostante tutto. Perde tanto di quella magia che solo l’essenzialità sa creare e presentare come poetica, e l’attenzione del lettore infatti si disperde di fronte alla moltitudine di questi inviti.
Se l’effetto ricercato è quello di alimentare la curiosità del lettore, direi che la storia in sé è perfetta. Se ogni romanzo che viene scritto o ogni opera che viene prodotta devono comportare anche la storia della loro genesi, l’opera si appesantisce.
Nel caso di AlbaNaia, nata dal materiale di un’opera preesistente (il diario), si poteva fare in modo che le informazioni raccolte nella Prefazione e nella Nota venissero incluse organicamente nel corpo della narrazione stessa.
Abdelmalek Smari